di Stefano Santos
“Storie e leggende napoletane” è una preziosissima raccolta di scritti concepiti e composti per la maggior parte negli anni giovanili di Benedetto Croce. Quello che muove il grande filosofo nelle sue note introduttive è prima di tutto “l’affetto per le vecchie memorie napoletane”, poi la volontà di non disperdere la memoria storica di quelle vicende – serbata da persone che non ci sono più e che alle quali esse erano collegate – condizione essenziale di ogni vero avanzamento civile. Con un approccio nostalgico, Croce ricostruisce poi con uno sguardo critico e un’attenta ricostruzione storica, i contorni, le radici e i fondamenti delle più care storie e leggende napoletane.
L’intento di chi scrive questa serie di reportage è quello di ricostruire (o almeno tentare di farlo) quei luoghi e quei riferimenti disseminati nelle singole trattazioni, per dare un contesto attuale a storie che si estendono per gran parte della trimillenaria storia di Napoli, principalmente attraverso la fotografia.
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La storia si apre con uno sguardo al balcone, un luogo universale del folklore napoletano. Benedetto Croce si leva dal tavolino del suo studio e si affaccia fuori, a indagare con lo sguardo l’incrocio tra quella che al tempo si chiamava via della Trinità Maggiore (oggi via Benedetto Croce) e via San Sebastiano e Via Santa Chiara. Quello studio (1), che oggi ospita la sede dell’Istituto italiano per gli studi storici, si trova in un palazzo che apparteneva fino al XIX secolo alla famiglia Filomarino. E’ facile individuarlo: è il primo portone di via Benedetto Croce, monumentale e bugnato.
Nell’ampio cortile (2) puntellato qua e là di sprazzi di verde è ancora possibile rinvenire i segni del passato dominio, con lo stemma della famiglia Filomarino scolpito nell’arcata opposta all’entrata del portone (che è possibile individuare nell’immagine). E’ difficile immaginare che questo cortile affondi le proprie radici storiche nel Quattordicesimo secolo, in cui apparteneva ancora alla famiglia Sanseverino, principi di Bisignano e in particolare a Pier Antonio Bisignano, celebrato dai poeti del tempo come uno dei signori più magnifici della città, famoso per aver ospitato nel 1535 perfino l’imperatore del Sacro Romano Impero Carlo V – sul cui impero neanche il sole riusciva a sorgere – di ritorno dalla conquista di Tunisi. Per questa sua generosità egli fu ricompensato riccamente dal potente sovrano; ma si sa che nella storia tumultuosa di Napoli sono poche le cose che durano. Infatti è già a partire da Nicola Bernardino, il figlio, che le fortune della famiglia declinano. A partire dal palazzo che poi sarà acquisito dai Gesuiti e diverrà la futura chiesa del Gesù Nuovo allo stesso Palazzo della Trinità Maggiore, acquistato nel 1610 da Tommaso Filomarino, che nel 1559 era divenuto conte e poi principe della Rocca d’Aspide. Una famiglia quella dei Filomarino che nel corso del Seicento era divenuta una delle più importanti della città; Ascanio era divenuto arcivescovo e Francesco una delle figure centrali della rivoluzione popolare di Masaniello del 1647-48, benvoluto sia dalla Corona spagnola che dal popolino napoletano.
Nominato dal rivoluzionario “grassiere” (prefetto dell’annona), concorse poi alla restaurazione del potere spagnolo incontrando Giovanni d’Austria a Port’alba (3) nei luoghi in cui più forte era il controllo dei ribelli.
L’ora chiamato Palazzo Filomarino non ebbe la stessa fortuna, vicina com’era al campanile di Santa Chiara (4), occupata nell’Ottobre del 1647 dagli Spagnoli e sede dei combattimenti più efferati e serrati della rivoluzione napoletana, da un lato i lazzari che tentavano con ogni mezzo di vincere la resistenza degli spagnoli, e questi che forti della loro posizione sopraelevata, cannoneggiavano sui rivoltosi, a spese dei luoghi immediatamente vicini.
Il palazzo fu danneggiato nella sua parte superiore, molto più esposto ai cannoni spagnoli, mentre la chiesetta di Santa Marta (6), che insiste proprio sull’incrocio in cui sorge il campanile, fu ridotta in macerie. Croce esprime un particolare rammarico nel ricostruirne le vicende anteriori: costruita dalla regina Margherita di Durazzo, moglie di Carlo III d’Angiò, nella sua congregazione si contavano nel Quattrocento i membri delle famiglie dei Durazzo e degli Aragona, oltre agli esponenti delle più importanti famiglie napoletane. Nel Cinquecento seguì un periodo di decadenza che culminò nella sua distruzione e nella sua successiva ricostruzione, in cui si tentò di riportarla ai suoi antichi fasti, divenendo poi sede della confraternita dei servitori delle famiglie napoletani, detti “creati” per essere stati allevati e cresciuti nella famiglia dei padroni, esponenenti anche loro di quella cosiddetta nobiltà decadente che attraversò tutta la storia della città. Croce ne fornisce una significativa testimonianza visiva, nei suoi sguardi malinconici a quegli ultimi vecchi “creati” che frequentano silenziosi la chiesa, perpetuando tradizioni secolari.
Palazzo Filomarino è congiunto a est con il Palazzo Venezia (6), detto così perché per quattro secoli vi abitarono gli abitanti della Serenissima Repubblica, donato da Ladislao I di Durazzo (figlio di Margherita) perché i consoli generali della Repubblica vi abitassero. La presenza veneziana, testimoniata da molte iscrizioni che ancora oggi puntellano il cortile del palazzo (oggi aperto al pubblico per mostre e eventi culturali), durò fino al Trattato di Campoformio che fece passare il Palazzo agli austriaci e poi ai privati. Nel Settecento acquista una nuova rilevanza, almeno per quanto riguarda la storia della letteratura e della filosofia, con il soggiorno del grande Giambattista Vico presso i principi Filomarino come maestro dei rampolli di casa, tra i quali l’ottavo principe della casa Giambattista, ricordato come “cavaliere di pietà, di generosità, di gravi costumi e di senno ornatissimo” nella sua Autobiografia e cui dedicò in occasione del suo matrimonio Maria Vittoria Caracciolo nel 1721 il suo massimo lavoro poetico, la Giunone in Danza.
“Questa augusta magione,
e d’oro e d’ostro riccamente ornata,
ove ‘n copia le gemme, in copia i lumi
spargon sì vivi rai…”
Durante la Repubblica Napoletana del 1799, gli esponenti dei Filomarino si esposero verso il giacobinismo e la democrazia, aprendosi alle idee francesi, ricoprendo molte cariche nella folgorante esperienza – magari anche influenzati in questo dagli insegnamenti di Vico – e che per questo molti caddero sotto i colpi della reazione, che decretò per loro un breve esilio e un lunga decadenza per tutto il corso dell’Ottocento, finché l’ultimo discendente si legò con la famiglia del grande poeta tedesco Heinrich Heine, attraverso il matrimonio con una delle nipoti. Croce entra in scena nel 1886, quando acquista il secondo piano del palazzo per abitarvi fino alla sua morte nel 1952.
Si è evitato di trattare in questa sede la vicenda di Giulia Gonzaga e del complesso di San Francesco delle Monache, che costituisce il quarto “braccio” dell’incrocio attorno a cui la trattazione crociana si costruisce, perché a essa sarà dedicato un capitolo specifico all’interno di questo racconto denso che testimonia come a Napoli non esista una flusso della storia unico.
Soltanto rimanendo su un piccolo angolo della città, e girando lo sguardo intorno, si è capaci di tracciare una storia della città, scoprirne le molteplici ramificazioni e meravigliarsi della sua magnifica complessità. Girare per gli stretti vicoli, rendersi conto e recitare in mente la storia dietro ai palazzi che li compongono, li rende più familiari, fino a occupare un posto speciale nei nostri animi.