di Roberto P. Ormanni
Ricapitoliamo.
Il 15 ottobre del 2009, Stefano Cucchi, geometra romano di trentun anni, viene fermato da cinque carabinieri nei pressi della chiesa di San Policarpio in zona Appio Claudio mentre era “intento a cedere degli involucri trasparenti ad un altro giovane (Emanuele Mancini n.d.a.) che gli dava in cambio una banconota (20 euro n.d.a.)”. Alle 23.30, Cucchi viene condotto in caserma e perquisito alla presenza del comandante Roberto Mandolini. Il giovane viene trovato in possesso di 21 grammi di hashish, tre confezioni impacchettate di cocaina, una pasticca di sostanza inerte e una pasticca di Rivotril (medicinale salva vita contro l’epilessia, regolarmente prescritto a Cucchi). Il maresciallo Mandolini ricorda che “il signor Cucchi era una persona tranquilla, spiritosa” e che, seppur magro e con occhiaie marroni, non appariva sofferente.
Alcune ore dopo, all’1.30, i carabinieri si dirigono, in compagnia di Stefano, verso casa Cucchi, in zona Tor Pignattara. Durante la perquisizione (dall’esito negativo) Stefano tranquillizza i genitori, Giovanni e Rita Calore. Qui, sarà l’ultima volta che Stefano vedrà la madre Rita.
In attesa del processo con il rito direttissimo previsto per la mattina seguente, Cucchi viene condotto alla caserma di Tor Sapienza per trascorrere la notte. Le sue condizioni fisiche sono normali, si muove senza problemi e viene portato in cella senza incidenti di percorso. Poco dopo le 4, però, Stefano suona il campanello della cella lamentandosi di avere freddo e di accusare malori alla testa. Viene chiamato, allora, l’infermiere del 118 Francesco Ponzo, che visita Cucchi, il quale però si dimostra (secondo le dichiarazioni) recalcitrante rifiutandosi di essere portato in ospedale.
Alle 9, due carabinieri della pattuglia mobile di zona Casilina prelevano Cucchi per portarlo alle celle di sicurezza del Tribunale di piazzale Clodio, dove viene consegnato alla Polizia Penitenziaria.
Qui, attraverso un cancello, si arriva al sotterraneo dell’Edificio B. In un corridoio largo un metro e mezzo, si trovano le celle in cui vengono collocati gli arrestati. La prima cella è adibita ad Ufficio Ricezione Arrestati; la cella 2 reca la scritta “Regina Coeli” e quel giorno è occupata da Stefano Colangeli; la cella 4 reca la scritta “Rebibbia Femminile” ed è occupata da Silvana Cappuccio; la cella 5 reca la scritta “n.5” ed è occupata da Samura Yaya. La cella 3, che reca la scritta “Rebibbia”, è libera. Ed è in questa cella che viene sistemato Stefano Cucchi.
Tra questi corridoi, il tempo passa e qualcosa di poco chiaro si consuma.
Il detenuto Yara racconta che dallo spioncino della sua cella nota Stefano che, prima di essere rinchiuso, viene picchiato tra tre persone in “meno di un minuto”: “Lui è caduto, loro davano i calci e in quel momento ho visto chiudere la porta”. Yara ha precisato che gli agenti “parlavano piano piano, Stefano piangeva forte” e aggiunge che, dopo la convalida in aula, lo stesso Stefano viene messo in cella con lui: “Ho visto che era ferito, neanche poteva sedersi bene”. Eppure, le dichiarazioni di Samura Yara non vengono reputate attendibili.
A queste si aggiungono quelle di Stefano Colangeli, altro detenuto, che riferisce di una persona che batteva sulla porta della cella per richiamare l’attenzione della Polizia Penitenziaria: “Chiamava ‘guardie’ – racconta Colangeli – e bussava e chiedeva il metadone per curarsi. Sbatteva sulla porta perché nessuno veniva”.
Alle 12.30 circa, Stefano è chiamato in aula. Ad attenderlo, l’avvocato di ufficio Stefano Rocca e Giovanni Cucchi. “Aveva la faccia gonfia – ricorda il padre – e dei segni neri sotto gli occhi”. Tra i banchi, in attesa dell’interrogatorio, c’è un battibecco continuo tra il giovane e i Carabinieri.
Un‘ora dopo, Stefano Cucchi è ricondotto nelle celle dopo aver terminato la convalida d’arresto in cui si è dichiarato “tossicodipendente” ma “innocente per quanto riguarda lo spaccio”. Alle 14, Cucchi, accompagnato dagli agenti Nicola Minichini e Antonio Domenici (detto Polpetta), viene visitato dal medico Giovanni Battista Ferri nei sotterranei del palazzo B. Stefano accusa dolori alla schiena e agli arti inferiori e spiega a Ferri di aver bisogno di Rivotril, ma rifiuta un’ulteriore ispezione e spiega le lesioni con “una caduta per le scale” avvenuta il giorno prima.
Alle 15, così, Cucchi e Yara, accompagnati da Minichini, Domenici e Corrado Santantonio, vengono portati all’Edificio A per essere condotti a Regina Coeli. Stefano, all’atto dell’ispezione personale, si muove a fatica lamentando dolori alla schiena. L’agente Antonio La Rosa gli chiede come abbia fatto a conciarsi così, ricevendo la risposta “Stanotte sono caduto per le scale”. I detenuti presenti, però, commentano: “Ma quali scale, ha fatto un incontro di pugilato. Però faceva il sacco anziché il pugile”.
Alle 15.45, Stefano arriva al carcere di Regina Coeli in custodia cautelare venendo perquisito da Bruno Mastrogiacomo: “Camminava a stento – dice Mastrogiacomo – e non riusciva a piegarsi perché aveva un segno sopra l’osso sacro”. Durante la visita medica a cui vengono sottoposti i nuovi giunti, il dottore Rolando Degli Angioli stila per Cucchi un certificato in cui dispone la visita ambulatoriale esterna con urgenza in quanto il giovane presenta “ecchimosi sacrale coccigea, tumefazione del volto bilaterale periorbitaria, algia della deambulazione arti inferiore”. Il certificato viene visionato intorno alle 17.30 dall’agente Furiglio, il quale allerta l’ispettore di sorveglianza per la disposizione della scorta per l’ambulanza. La scorta è disponibile alle 18. L’ambulanza però arriva soltanto alle 19.30.
Alle 20 Cucchi arriva all’Ospedale Fatebenefratelli e viene visitato dal dottor Cesare Calderini, medico di guardia, che trova i segni di “un recente trauma” nella zona lombosacrale di Stefano. Calderini richiede due radiografie, in cui il radiologo Federici individua due fratture, e decide di ricoverare Cucchi per “ulteriori accertamenti”. Stefano, però, si rifiuta, preferendo tornare a Regina Coeli. Rientro che avviene intorno alle 23, quando il dottor Antonio Console trasferisce il giovane presso il Centro Clinico.
Verso le 11 del 17 ottobre, il dottor Gianluca Piccirillo viene chiamato dall’infermiera perché Cucchi lamenta nausea e non riesce ad alzarsi per il gran dolore. Quando Piccirillo chiede il motivo del rifiuto al ricovero, Stefano spiega che “in Ospedale non si fuma”. Il dottore, allora, con estrema difficoltà, lo convince. Alle 12.15, Cucchi viene nuovamente scortato al Fatebenefratelli e successivamente visitato. “I servitori dello Stato – dice Stefano al dottor Bastianelli – mi hanno fatto questo. Accetto tutto, basta che mi fate parlare con il mio avvocato”.
Non essendoci posti letto disponibili né al Fatebenefratelli né negli altri reparti di Ortopedia romani interpellati, Bastianelli chiede di ricoverare Cucchi nella Struttura Protetta (riservato a pazienti detenuti) dell’Ospedale Sandro Pertini precisando che “necessita di ricovero, ma non è in condizioni critiche”. Il dottor Farina, che dà il cambio a Bastianelli, sottolinea il rischio per il giovane di una perdita di sangue e di una rottura di vasi nella zona contusa.
Alle 19.40, Cucchi viene preso in carico dall’Ospedale Pertini. Qui, è l’infermiere Domenico Lo Bianco che compila, sulla cartella infermieristica, le consegne per i colleghi che subentreranno per la notte. Il turno di notte, dalle 21 alle 6, viene svolto dagli infermieri Elvira Martelli e Giuseppe Flauto e dalla dottoressa Rosita Caponetti.
Intanto, la famiglia Cucchi viene avvisata del ricovero di Stefano solo alle ore 21. Alle ore 22 circa, i genitori si presentano al padiglione detenuti del Pertini. Chiedono al piantone se è possibile visitare il paziente, ma la guardia risponde: “Questo è un carcere e non sono possibili le visite”. I genitori, allora, chiedono notizie sulle condizioni di salute del figlio. Il piantone li fa attendere per poi invitarli a tornare il lunedì successivo per parlare con i medici.
La mattina del 18 ottobre l’infermiera Spencer somministra la colazione a Cucchi, il quale segnala di essere celiaco e di non poter mangiare alcuni alimenti. L’infermiera avverte la dottoressa Stefania Corbi, in servizio dalle 9 alle 21, la quale visita Stefano e lo rassicura che per il pranzo avrebbe avuto una dieta specifica per la sua patologia. Quando lei gli chiede se avesse dolore, il giovane Cucchi dice: “Che non lo sai che c’ho una frattura?”. La giornata della domenica passa tra dolori, antidolorifici e pasti rifiutati.
La mattina di lunedì 19 ottobre, Silvia Porcelli offre a Cucchi, “lucido e consapevole”, la colazione, consumata senza problemi. Successivamente, la dottoressa Flaminia Bruno sottopone Stefano ad una visita, difficoltosa in quanto il giovane si presentava seccato nel rispondere alle stesse domande già rivoltegli in precedenza da altri medici.
Alle 12 arrivano nel padiglione i genitori di Stefano, i quali vengono fatti accomodare in attesa. Ancora una volta, viene negata loro la possibilità di un colloquio con i medici. La motivazione è che l’autorizzazione del carcere non è ancora arrivata. Una sovrintendente dell’ospedale, dunque, invita la famiglia a ripresentarsi il giorno successivo.
Nel frattempo, alle 13.15, la Porcelli porta il pranzo a Cucchi e nota che sul comodino ci sono quattro bottigliette d’acqua tutte iniziate. “Come mai smezzi le bottigliette?”, chiede a Stefano, “Voglio capire quanto assumi”. Secondo quanto raccontato dall’infermiera, Cucchi in quell’occasione gli avrebbe confidato che non si fidava di bere da bottiglie già aperte giacché era stato picchiato dai Carabinieri. La Porcelli raccoglie quella testimonianza, ma va via avendo terminato il turno.
Il successivo turno dalle 14 alle 21 viene coperto dalle infermiere Masciarelli e Carpentieri e dal dottore Luigi Preite De Marchis, che analizza gli esiti degli esami valutandoli tutto sommato normali.
Martedì mattina, il 20 ottobre, è di turno l’infermiere Giuseppe Flauto che non riesce a far mangiare Stefano.
Alle ore 12, la famiglia Cucchi torna al Pertini chiedendo di visitare Stefano. Il piantone, questa volta, nega loro l’ingresso dichiarando che “sia per i colloqui con i detenuti sia per quelli con i medici occorre chiedere il permesso a Giudice del Tribunale di piazzale Clodio”.
Dalle 14 alle 21, l’infermiera Silvia Porcelli torna di turno insieme al collega Domenico Pepe e alla dottoressa Flaminia Bruno. Quest’ultima, notando valori alterati negli esami fatti la mattina e rilevando un quadro di disidratazione, cerca di convincere Stefano a ricorrere alle flebo. “Non è – racconta la Bruno – che gli dissi ‘Domani muori se non ti fai le flebo’, però gli spiegai che i rischi erano significativi”. La dottoressa, tuttavia, non opera particolari iniziative se non la scelta di “ripetere gli esami”.
La notte del 20, il dottore De Marchis Preite prende le consegne dalla Bruno, la quale gli riferisce la necessità di idratare il paziente che aveva rifiutato la terapia endovena idrica. Ma De Marchis Preite racconta che, “nel giro serale della terapia”, saluta il paziente che beve davanti a lui. Al mattino, il dottore non trova nelle condizioni di Stefano “segni di instabilità” e valuta “una diuresi in crescita, segno indiretto che il paziente beve”.
La mattina del mercoledì 21 tornano di turno la dottoressa Corbi e gli infermieri Elvira Martelli e Stefano Flauto (quest’ultimo proseguirà il turno fino alle 6 del 22, coprendo il turno di notte in sostituzione della Porcelli).
Fuori dal Pertini, intanto, alle 12.30, Giovanni Cucchi, dopo una mattina passata in tribunale, ottiene il permesso del Giudice della settima sezione per i colloqui. Decide di non andare a Regina Coeli per farsi vistare il permesso in quanto l’ufficio competente chiude alle 12.45, rimandando tutto al giorno successivo.
Intorno alle 16 la Corbi prende visione degli esami fatti a Cucchi, constatando valori negativi e una disidratazione. Sceglie, quindi, di avanzare con idratazione a vista. “Ricordo – dice la dottoressa Corbi – di aver detto a Flauto che era importante che gli facessero bere una certa quantità di acqua (quattro bicchieri n.d.a.) ogni volta che entravano nella stanza”.
In questi momenti, Cucchi chiede di parlare con il suo avvocato o con un volontario della Comunità CEIS, mettendo la sua richiesta per iscritto. La Corbi, allora, intorno alle 18, va dal dottor Aldo Fierro. Fierro, Direttore della Struttura di Medicina Complessa dell’Ospedale Sandro Pertini, apprende solo allora l’esistenza di Stefano Cucchi. La Corbi gli presenta gli esami del paziente e comunica che Cucchi rifiuta le terapie e chiede di parlare con l’avvocato. “Facciamo – risponde Fierro – una lettera al Magistrato: tu la prepari e domani mattina la visto anche io”.
La Corbi e Fierro scelgono quindi di aspettare il giorno seguente. L’urgenza di agire, dirà la dottoressa Corbi, non c’era.
Le indicazioni lasciate per il turno di notte (svolto da Flauto e Pepe) sono di controllare l’idratazione e la diuresi di Cucchi.
Verso le 21.30, i due infermieri vanno da Stefano, che non ha dolori né fastidi. Verso le 24 Stefano suona il campanello, ma, quando Flauto arriva fuori la cella, il giovane spiega: “Mi sono sbagliato, scusate”. Dopo circa un’ora, risuona il campanello. Anche in quest’occasione gli infermieri non entrano. Stefano chiede: “Vorrei una cioccolata “. Flauto risponde: “Se vuoi abbiamo marmellate e succhi di frutta, ma la cioccolata no”. Stefano, allora: “Ah, no. Se non c’è la cioccolata, allora non voglio niente. Vi ringrazio, buonanotte”. Le chiamate si fermano qui.
Alle sei del mattino del 22 ottobre, Flauto entra nella cella di Cucchi per la prima visita.
Stefano è sul fianco destro, con la mano sotto la testa. “Ero convinto che stesse dormendo”, dirà l’infermiere. Flauto si avvicina, lo tocca, lo scopre, ma Stefano non respira più. Il battito è fermo. Chiede il defibrillatore, chiama il medico, intanto esegue il massaggio cardiaco. Arriva anche la dottoressa Bruno, che continua a massaggiare per mezz’ora. La situazione non cambia.
Stefano Cucchi viene constatato morto alle 6.10. La certificazione medica rilasciata dal sanitario ospedaliero parla di “presunta morte naturale”.
Alle 12.10 un carabiniere si presenta a casa Cucchi, trovando solo la madre del ragazzo, essendosi il padre recato a Regina Coeli per il visto. Il carabiniere dichiara che sarebbe tornato più tardi. Mezz’ora dopo, alla madre di Stefano viene notificato il decreto del Pm. E’ così che Rita Calore viene a sapere della morte del figlio.
Questi sono, all’incirca, gli eventi accaduti in quei sette giorni di un ottobre di cinque anni fa.
Al di là di questo, non è successo niente. E se qualcosa è successo nella caserma di Tor Sapienza, o nelle celle di piazzale Clodio, o nei corridoi dell’Ospedale Pertini, non ci sono prove sufficienti a dimostrarlo. Non è colpa di nessuno e nessuno pagherà.
Tutti assolti. Tutti, tranne Stefano Cucchi.