Fuori dai confini, ai margini del visibile. E’ lì che Luca Di Martino, fotografo napoletano classe 1986, costruisce i suoi reportage. Una ricerca che tenta di conoscere la realtà lungo un percorso cominciato due anni fa tra gli sguardi silenziosi incontrati in Nepal.
Lo scorso agosto, così, Luca è tornato sulla strada. Venti giorni in Malesia a esplorare le isole e le foreste, a vivere nei villaggi di montagna e sulle palafitte in mezzo al mare. Un’immersione totale nel mondo da raccontare attraverso la fotografia. Una fotografia salvifica, quella di Luca, che raccoglie gli sguardi, i gesti, la quotidianità, e che protegge dall’oblio le vite lontane e nascoste.
Oggi, dalla valigia dei rullini digitali, venticinque foto sono state selezionate per comporre la mostra “Malesia – Out of Border”, curata da Federica Cerami e allestita nel Palazzo delle Arti di Napoli all’interno del circuito del Forum Universale delle Culture. L’esposizione sarà inaugurata lunedì 1 Dicembre alle ore 18 e si articolerà in quattro sezioni dedicata alle popolazioni della Malesia più una quinta sezione riservata ai capivillaggio delle tribù.
“Durante il mio viaggio ho incontrato quattro tribù”, mi racconta Luca Di Martino, “I Dusun e gli Ubian discendono direttamente dai Dayak, i celebri tagliatori di teste. Ma sono ormai venti anni che hanno abbandonato quest’usanza. Poi ci sono i nomadi Pala’u e i loro antenati Bonggi”. Mentre parla, Luca cerca di riordinare i ricordi e le sensazioni, vorrebbe portarmi in quei luoghi attraverso le parole, ma non è semplice. “E’ come se mi chiedessero di descrivere l’amore: è impossibile”. Allora si ferma a raccontare gli incontri, le persone e le storie dietro le sue fotografie. “Nel villaggio Dusun, popolo di montagna, ho incontrato un uomo di cinquant’anni, alto un metro e 50, lo chiamavano Alex The Great: era cacciatore, pescatore, muratore, agricoltore – un tuttofare!”. E aggiunge: “Ma nella loro comunità funziona così: tutti fanno tutto, ognuno collabora con l’altro”. Diversa, invece, la realtà degli Ubian: “Loro sono pescatori – racconta Luca – vivono su di un’isola fuori dal mondo, eppure sono più simili a noi: essendo musulmani hanno credenze e atteggiamenti riconoscibili”. Un dettaglio comune, tuttavia, lega le varie tribù: “In ogni villaggio, di ogni popolazione, ho trovato sempre le scuole”.
Protagonisti di alcuni scatti di Luca sono i Pala’u, una popolazione di 10-15mila nomadi del mare, apolidi che nascono, vivono e muoiono in acqua. “Li ho cercati per due giorni di seguito – ricorda Luca Di Martino – in un atollo chiamato col nome di un famoso attore malese. Poi ho visto le loro palafitte traballanti, costruite alla buona, e li ho incontrati: mi guardavano come un alieno. Tornato in Italia ho scoperto che nessuno ha mai fatto un reportage su di loro, sarebbe bello tornare lì e comprendere la loro storia”. I Pala’u, infatti, discendono dalla tribù dei Bonggi ma non è chiara l’origine del loro vagabondare.
“Un giorno – racconta Luca – la mia guida mi ha portato in una giungla fitta. Siamo arrivati, a colpi di machete, ad una casa di mattoni, la prima che vedevo in quei luoghi: quattro stanze completamente vuote, quasi abbandonate”. Perché una dimora sperduta nella foresta? Luca mi descrive il motivo: “A cinquanta metri abbiamo incontrato un vecchietto nudo, coperto solo da un perizoma, lancia nella mano e tabacco in bocca. Era l’ultimo dei Bonggi. Il governo malese gli ha fornito la dimora”. Una sorta di monumento nazionale e specie protetta. “Non sono riuscito a capire niente. Tra le poche parole che ci siamo scambiati, ho provato a chiedergli perché non abitava la casa. Lui ha indicato una stuoia accanto ad un albero e mi ha detto ‘Sono nato nella giungla, e morirò nella giungla’”. Oggi, la foto che fa da copertina alla mostra è il ritratto che Luca è riuscito a scattare all’ultimo dei Bonggi.
“Luca con la sua macchina fotografica – scrive Federica Cerami, curatrice dell’esposizione – cerca sempre di non essere un muto testimone ma di vestire i panni del concittadino di tutte le popolazioni conosciute”.
“Mi avevano sconsigliato di partire”, mi confida Luca, “La costa della Malesia che ho girato è la più battuta dai pirati, ogni giorno dovevo comunicare le mie posizioni alla polizia e al Ministero. Eppure, in quei villaggi così lontani, ancora una volta, ho trovato persone felici, felici davvero, che vivono di quello che hanno”. Un contatto profondo e sincero, che negli ultimi mesi ha portato all’ideazione di un progetto più grande. Il 50% degli utili della mostra, infatti, verrà utilizzato per costruire una palafitta sull’isola di Malawali in Malesia. “Niente di invasivo”, precisa Luca, “Col benestare del capovillaggio, la palafitta avrà un doppio utilizzo: ospitare i volontari universitari che stanno cercando di costruire i pannelli solari per dare elettricità alla piccola scuola del villaggio e accogliere quei turisti che hanno voglia di intraprendere un viaggio alla scoperta di un popolo e di una cultura diversa dalla nostra”.
Gli scatti di Malesia – Out of Border resteranno al PAN fino al 31 Dicembre. Ma Luca già pensa al futuro: “Sto immaginando il mio prossimo viaggio, pensavo al Sud Dakota e ad un reportage sulle riserve degli indiani d’America: è dagli anni ’40 che non si discute del tema”. E a chi gli consiglia di andare via da Napoli e dall’Italia per trovare successo, Luca risponde: “Perché dovrei? Sono napoletano, certo viaggio, ma fin quando avrò l’opportunità è qui che farò le mie mostre”.