Il vino è finito; che fortuna, faceva schifo. Non ho il coraggio di versarmi un altro calice, lascerò questi veleni atossici a chi ha speso per averli. Il dottore deve avere un grande cultura sull’economia: alzo lo sguardo e mi ritrovo circondato da scaffali pieni di volumi da mille pagine ciascuno. Deve latitare in enologia, e anche in letteratura. Troppi Smith, Keynes e Modigliani, e troppo pochi Gogol’, James, Saramago e compagnia. La monotonia simmetrica dei trattati e dei compendi si scontra con l’irregolarità dei libri comprati in posti diversi e in diverse edizioni. Non deve essere carente in prospettiva, dato che la parete di finestre dà su un paesaggio di declivi rigogliosi di piante mediterranee e più in lontananza, del Tirreno.
Ho trovato una scatola di cioccolatini, ancora intatta, nel cassettino del tavolino di fianco alla poltrona. Non è del tipo che si scambia tra innamorati, è una confezione formato famiglia, quella che riesce a venir svuotata in neanche un pomeriggio piovoso, quello in cui si tenta di tenere a bada i pensieri cupi e tristi, ingozzandosi. La principale causa di obesità tra la popolazione di ogni età. Meno male, non è scaduto. La scarto, artigliando la plastica che l’avvolge. C’è un buon assortimento di tipi di cioccolatini: al pistacchio, ripieno di liquore, con le arance, ripieni di nocciola e al cocco. Peccato che mi facciano venire la diarrea al solo sguardo, perché mi riempo, vado in overdose e il giorno dopo sto tutto il tempo in bagno. Prima di fare le mie incursioni in una pasticceria, infatti,devo concordare una settimana di ferie dopo. Uh, che indecisione! Ingozzarmi e stare male, o digiunare e lasciare che il liquame che ho bevuto mi corroda lo stomaco? Se ci penso, il cocco assorbirà l’alcol, e il ripieno di liquore lo sostituirà. Inoltre, non mangio da stamattina. E sia, me li mangio. Che delizia!
Sento il cioccolato sciogliersi, diventando una crema pastosa che si infila in ogni angolo della mia bocca. Come una scarica elettrica, avverto lo zucchero assorbirsi nel sangue, che a sua volta circola nel cervello, rilasciando la dolce, dolce dopamina. Io ladro, nella casa che sto svaligiando, sto per avere un cioccorgasmo. Questo stato mi dura per ore, peggio di quei quadratini colorati da mettere sotto la lingua che mi rifilarono un po’ di anni fa. Gli sbirri potrebbero trovarmi in queste condizioni e portarmi in cella senza che me ne possa accorgere in alcun modo, non prima però di avermi rifilato qualche manganellata al fianco. Ma è così bello, anche se poco paragonabile all’amore di una donna, ma ha lo stesso i suoi vantaggi, come l’assenza di una qualche dipendenza.
Mi adagio meglio sulla poltrona, adesso ci sono i ripieni di nocciola; l’effetto è al suo culmine. La vista mi si annebbia, tutto diventa più fumoso. Sghignazzo senza motivo. No, in effetti ridacchio per ogni motivo. Per la forma curiosa della lampada da scrivania, per la statua di un tizio seduto su un vaso da notte, per quella strana forma della nuvola che mi ricorda una donna nuda. Uh, e che buffo quello strano tipo davanti a me steso su di una strana poltrona. Ridacchia, istupidito. La bocca è imbrattata di marrone e sul grembo una scatola di cioccolatini aperta sta agonizzando. Mi fissa, e non posso fare a meno di ridere con lui. Tento di fare conversazione. Mi alzo sui gomiti, per guardarlo meglio. Che scimmia! Sembra copiare i miei movimenti, rimaniamo così faccia a faccia, per parlare meglio, suppongo. Che scemo!
“Ehi tu, dico a te” gli grido “Cosa vuoi da me? Stai lì, come una foca in calore, sghignazzi mentre ti riempi di cioccolatini. Vattene via, non c’è bisogno di te.”. Non mi risponde, e rimane nel suo stato di ebete felice. “Non fai una piega, eh? Sei un tipo strano, ma mi piaci. Diventeremo amici io e te, sì, sì! Brindiamo a questa nuova amicizia!” Afferro il calice e lo alzo. Lui fa lo stesso. “ Sei un tipo sveglio. Mi piaci ancora di più, anche se non parli.”
“Uh, questo vino fa proprio schifo! Fa schifo anche a te? Hai i miei stessi gusti. Sei un tipo singolare e mi piaci.”
Rimaniamo in un silenzio. Non so come continuare, né lui sa come ravvivare il discorso. Alziamo entrambi gli occhi al soffitto, come se stessimo entrambi aspettando qualcosa. Decido allora di parlargli del mio passato, essendo questo un argomento molto difficile da esaurire in poco tempo. Mi metto comodo. Che carino, sembra prepararsi per ascoltarmi.
“Non so che ci fai qui, né quale sia il motivo di questa visita. Questa non è casa mia, un bifolco come me non se la potrebbe permettere, né sognarla. Questa è la villona di un intellettuale, di un sofista delle banche. Lo vedi da come ha tappezzato la parete di volumi di economia e di come difetti totalmente di altre conoscenze, come l’enologia e la letteratura. Un gigantesco ammasso di cultura proveniente dalla farina di altri. Io sono un ladro, e fino a adesso mi stavo occupando di ripulire questa casa. Non pensare male, non lo faccio con malizia, non sono un uomo cattivo. Mi dovevo rifare le posate, andate perdute in un pic-nic, trovare dei gioielli da regalare alla mia morosa e aggiornare la mia elettronica. Ah, mi odierei se fossi il padrone di casa. Man mano che mi conoscerai, capirai. Intanto però ti dico che mi sostento rubando, ecco tutto. Non ho altre abilità che mi permettano di fare altro. Non so cucinare, non so niente di meccanica, se pulisco qualcosa la sporco. Un essere inutile della società, che piglia i frutti delle genti. Te l’ho detto, mi faccio schifo da solo. Ma non c’è niente da fare, non posso sottrarmi a tutto ciò.
Mi ricordo che a cinque anni andavo all’asilo. Verso l’una del pomeriggio, prima del riposino, le maestre ci facevano mangiare la nostra merenda. Allora si scatenava una sorta di anarchia, dove si formava una società primordiale. Il caos iniziale seguito da un razionalizzazione in cui si andavano a formare i vari gruppetti, che tra un po’ di anni sarebbero diventate durature amicizie. C’era allora un sorta di chiusura, tra bambini di diversi gruppi non si giocava. Solo gli spiriti liberi andavano a rompere questi equilibri. C’erano pizzichi e spintoni. Uno di questi si avvicinava a un bambino che mangiava normalmente il suo cremino, gli dava una spinta e si pigliava la merenda, tra le lacrime della vittima. Io, per amore della pace, rifuggivo da questa violenza. Ero un tipo pacifico, ma non abbastanza da reprimere in me il desiderio di prendermi tutte le merendine che volevo. Escogitavo col passare dei giorni dei metodi su come prenderli senza che se ne accorgessero. Potrei dire che da lì mi è nata questa insana passione. I primi tempi ero abbastanza grossolano, mi facevo sempre scoprire con le mani nel sacco. Allora l’unica soluzione era fare il prepotente, e funzionava nella maggior parte dei casi. Piangevano e se ne andavano. Molti mangiavano la foglia, altri mi denunciavano alla maestra e mio padre mi andava a prendere tirandomi le orecchie. Spinto dalle necessità, mi dedicavo a cercare nuovi metodi, a Natale chiesi il kit per il piccolo prestigiatore per imparare a far ‘sparire’ le cose. Dopo aver passato la settimana prima della Befana a affinare le mie tecniche, ero già capace di far scomparire un uovo, ero un talento nato. Mio padre mi aveva già captato nelle mie aspirazioni: invece di chiamarmi ‘Campione’ come fanno i padri stereotipati, mi chiamava ‘brigante’ e ‘mariuolo’, anche nel suo quotidiano affetto.
Io non mi offendevo, anzi, mi miglioravo ancora di più. Ero diventato infallibile nel prendere le merende ai miei compagnucci, anche se col senno di poi penso che fosse la cosa più facile al mondo. Mio padre notava ciò: non mi veniva più a prendere in anticipo. Mi diceva “stai diventando bravo, hai un futuro” e mi incoraggiava. Che grande uomo, pace alla sua anima! Mia madre invece ignorava tutto ciò: credeva fossi un bambino appassionato di magia. Mia sorella poi, traeva benefici dall’avere un fratello ladro, dato che le regalavo parte dei miei bottini, che si ingrossavano con il passare degli anni. A otto anni avevo già fatto un colpo in una fumetteria e a dieci anni sapevo già scassinare semplici serrature, quelle tipiche degli armadietti, ci si trova sempre roba interessante. Andavo negli edifici abbandonati delle zone industriali, pieni di archivi e cassetti chiusi, per allenarmi. Nella maggior parte dei casi trovavo cartacce ingiallite, ma riuscivo a trovare anche libri, riviste, roba di cancellerie e in casi eccezionali, degli spiccioli. Una volta trovai pure un giradischi, uno degli oggetti più belli e cari che abbia mai posseduto. Contemporaneamente, dato che non mi davano una paghetta rimediavo dei soldi attraverso la vendita della refurtiva. Nelle scuole che frequentai ero sempre il tipo “da cui puoi trovare tutto”. Una figura che tutti gli studenti conoscevano, ma che alla luce del sole non esisteva: ero una leggenda metropolitana. Cosa alquanto seccante, perché ogni volta che mi presentavo a qualcuno, questi sgranava gli occhi e mi diceva “Ma sei veramente tu?”. Ma c’era anche un lato positivo, rappresentato dalle ragazze, che subivano il fascino da delinquente che emanavo. In quegli anni i giornali riportavano continui furti a opera di sconosciuti, che colpivano sempre i negozi di cioccolato e i fiorai. Mio padre mi fissava sempre torvo, quando guardava i telegiornali, ma io non ne sapevo niente. Gli anni passavano. Tra i quindici e i sedici anni imparai a aprire le casseforti, a disattivare gli antifurti e a borseggiare. Ero entrato nella fase universitaria del mio percorso verso il ladrocinio professionista. Persi ogni interesse nella scuola, dato che scarseggiavo in tutte le materie, non perché non mi interessassero ma perché avevo già deciso cosa fare della mia vita. Sai già cosa.”
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