Ho parlato così tanto, che mi si è asciugata la bocca e mi fa male la mandibola. Mi ha ascoltato per tutto il tempo: sembra spossato. Sono così stanco, che mi sento improvvisamente sonnolento. Mi sdraio supino per cercare di dormire un po’. L’effetto della cioccolata sembra scemare. Il mio amico sembra essersene andato, sostituito dalla mia immagine riflessa. Peccato, era un bravo ragazzo.
Ma io lo sono? La maggior parte delle persone che mi è capitato di incontrare, direbbero di no. Anzi, mi prenderebbero a calci e tutti insieme andrebbero a casa mia per riprendersi ciò che ho preso loro, ma non li biasimo, farei la stessa cosa. Scopro, solo adesso, di non avere certezze. La mia vita è continuamente appesa a un filo, niente di quello che possiedo l’ho guadagnato con il sudore della mia fronte. Finora ho usato le cose che gli altri hanno costruito, come un virus. Sono consapevole che adesso sta parlando un me disinibito dall’alcol e dalla cioccolata, non il me lucido e calcolatore. Quello che odia la sua stessa categoria. Quello che parla per aneddoti. Quello che riesce a discernere il vino buono da quello cattivo. Quello che sa solo rubare. Quello che sa operare solo con il favore delle tenebre. Questo, perché? Per il dominio silenzioso.
Non spintono, vado per vie traverse. Non minaccio con coltelli, agisco mentre loro dormono. Posso fare potenzialmente ciò che voglio, senza che loro oppongano resistenza, né sappiano ciò che sto facendo loro. E’ strano che io abbia scoperto il gusto di tutto ciò osservando bambini che giocano all’asilo. Che senso ha tutto ciò? La mia vita sconclusionata, questi processi mentali sballati, l’insensatezza dei miei discorsi. Perché il destino non ha voluto darmi la normalità? Darmi l’ordine usuale degli avvenimenti: nascere, crescere, andare a scuola, fare prime esperienze amorose, trovare un lavoro, sposare una dolce ragazza, avere dei figli, vederli crescere, dare una festa al pensionamento, invecchiare e morire rincoglioniti, ma felici. Vivere alla giornata, per quanto sia bello, oh, niente è meglio della quotidianità, del tran-tran. Non mi sarei mai sorpreso a dire queste cose in pubblico, ai lettori di questi discorsi, ma la realtà è questa. Una passione che è degenerata nel nulla. Che pensieri piccolo-borghesi!
Ho deciso, lascio. Dopo questo colpo mi riposerò un po’, poi mi licenzierò dalla libreria, venderò ai ricettatori tutta la roba che ho accumulato e con i soldi che guadagnerò e i libri che conserverò, andrò da un’altra parte, il Cilento o le Eolie, non so. Mi ricordo di averlo già detto tanti anni fa, ma adesso è il momento giusto.
Mi alzo dalla poltrona, butto da un lato la scatola di cioccolatini. Il furgone è lì che mi aspetta.
L’effetto della cioccolata, però, sembra non essere scemato. Adesso non c’è un solo amico. Sono due, vestiti di blu, in giacca militare. Solo a guardarli mi sembrano tanto simpatici. Alzo in calice in loro onore. Non rispondono, e non hanno i bicchieri. Mi regalano un paio di braccialetti, che carini!
Mi afferrano per portarmi in bei posti. Sono sicuro che sarà un bella amicizia, mi danno uno strappo con la loro macchina. Non vedo più nulla, mi devo essere addormentato.
Mi sveglio. L’effetto è svanito completamente. Devo aver mangiato cioccolatini stantii, innaffiati di vino scadente, lo stomaco reclama. Provo un forte senso di nausea, come se un peso di piombo mi gravasse in fronte. Il sole è a scacchi. Così alla fine mi hanno preso. Mi devo essere drogato con qualcosa di pesante, il colpo è sfumato e suppongo che abbia perso tutto. Lo giuro, non lo farò più. Mi disintossicherò adesso, ruberò soltanto le bandiere. Scopriranno le decine di migliaia di furti spalmati in trent’anni di onesta pratica, le centinaia di migliaia di euro di merci che ho svenduto ai ricettatori. Centinaia di commercianti busseranno alla porta per spezzarmi le gambe, e altrettanti garzoni e sguattere mi chiederanno i risarcimenti per i lavori che hanno perso. La merda che ho sotterrato in questi anni mi cadrà addosso in un secondo. Gli sbirri verranno e mi caricheranno di randellate. Oh, giuro di non lo fare mai più. Mai più.
Sento stivaloni correre per il corridoio. Dio, chissà cosa mi faranno. Spalancano la cella, mi rannicchio sul lettino. Mantengo lo sguardo fisso, sopporterò le manganellate con ardore. Si fermano, con mio enorme stupore. “Straccione, alzati da quella branda e vieni con noi. Esci.” “Perché mi fate uscire?” “Perché sei un barbone di merda, no? Intrufolarsi in casa d’altri per sonnecchiare, stappare bottiglie di vino, mangiare cioccolatini è tipico di voi pidocchiosi. Ma a voi si può perdonarlo. Così ha fatto il proprietario, gran signore. Non ti ha neanche denunciato. Per essere un squalo delle banche, è un tipo magnanimo. Io lo avrei fatto e ti avrei spezzato un braccio. Ma non stiamo qui per parlare di me. Vieni con noi, riprenditi i tuoi stracci e torna libero a assiderare negli androni con i tuoi compari. Non hai un nome, né un indirizzo. Non appari neanche tra gli schedati. Non esisti. Andiamo.” “Ok.”
Dovevano avermi trovato davvero in uno stato pietoso se mi hanno pigliato per un barbone. Non succederà nulla, non cambierà nulla. Ritornerò al mio appartamento, lavorerò in libreria. Ma voglio lo stesso cambiare. Firmo con una x il modulo e mi congedo. A casa, osservo la montagna di computer e le mazzette di banconote verdi ammassate sul tavolino.
Forse domani.