Attraversai senza problemi il confine tra i due scompartimenti, mi arrampicai sulla porta e entrai. Non c’era quasi nessuno, poiché non era orario di pasto. La vita nel treno era scandita dai pasti: dopo il risveglio e una veloce toeletta a turni si andava a mangiare la colazione, si ritornava ai propri posti fino al pranzo e poi lo stesso fino alla cena. Negli intermezzi tra i pasti principali, veniva aperto il bar per i tè delle cinque o un caffè in compagnia. In quel momento vi erano solo cinque persone: il barman, in camicia e panciotto, seduto su uno sgabello, che sonnecchiava appoggiato alla macchina per l’espresso; una coppia di innamorati, vis a vis, che si stringevano le mani bevendo cioccolata calda; due ragazzi baffuti disposti come la coppia di prima, che si sfidavano per chi avesse chiuso gli occhi per ultimo. Mi soffermai poco a osservarli: a passo svelto mi diressi verso il dormiente, mi fiondai su una poltroncina e a gran voce urlai: “Presto, una pinta di bicarbonato!”. Il mio interlocutore si scosse, istupidito, diresse lo sguardo verso di me, elaborò per un momento quello che gli avevo urlato e mi disse con voce impastata “S-subito”. Riempì un boccale di acqua, versò un cucchiaino di bicarbonato, aggiunse delle gocce di limone, attese che reagissero e me lo passò. Lo bevvi tutto d’un fiato. Sentii il liquido che mi inondava lo stomaco, scioglieva per bene il cibo il quale ammorbidito, appariva puro e disposto a scendere l’intestino. Il processo mi venne notificato attraverso dei rombi che mi fecero vibrare e terminarono in un rutto liberatore, che mi proiettò nella beatitudine che segue a pasti abbondanti e appaganti. Il barista si era di nuovo addormentato, abbandonandosi definitivamente sul bancone. Di nuovo agile e scattante, la pacatezza dell’ambiente mi aveva deluso. Mi rivolsi ai tavoli, per cercare qualcosa di interessante da osservare. Trovai nei due sfidanti un’alternativa valida alla sfida Tommasini e Gentilini. Trascinai la poltroncina verso di loro, per guardarli meglio. Mi sembravano tipi tenaci, due spiriti forti e lo spettacolo non sarebbe stato poco. Avevano i volti rigati dalle lacrime, i muscoli facciali in tensione, gli occhi erano arrossati. Il bruciore che li tormentava lo sfogavano attraverso pugni stretti, graffi al corpo, gemiti doloranti. Le labbra erano serrate, e come i ventriloqui mormoravano maledizioni contro il rivale. La mia presenza non sembrava aver suscitato in loro alcuna reazione, ma se si osservava più a fondo, si poteva notare un’impercettibile movimento delle pupille verso la mia direzione. Li avevo destabilizzati, li avevo distratti. Persero ogni rigorismo, la foga li fece sudare e ravvivò il dolore che per troppo avevano imbrigliato, pur di non vedere vincere l’avversario. Si può dire a posteriori che io abbia deciso l’incontro. Il rossore aumentò, le lacrime sgorgarono con più violenza, le palpebre scendevano in piazza, facevano rivoluzione affinché si potessero chiudere. Era questione di secondi. L’uomo dei baffi alla Dalì sembrava cedere, mentre il tizio dai baffi imperiali appariva riuscire a sedare la rivolta, ma l’azione di un granello di polvere traditore lo fece capitolare. Cominciò a schiumare di rabbia mentre curava l’occhio con un fazzoletto. Per l’omino dai baffetti a punta nulla fu più liberatorio di un sano pianto per irrigare una cornea per troppo tempo rimasta asciutta. Le palpebre ringraziarono.
Dopo che si ripresero dallo stress e dopo che sbollirono la tensione agonistica, diventarono abbastanza lucidi da riconoscermi quale possibile interlocutore. Il vincitore era più gioviale e il viso era meno teso, concedendosi il vezzo di accarezzare i baffi filiformi. Il perdente, dall’altro canto, era torvo e poco propenso a una chiacchierata, preferendo rimanere leggermente chino, a osservarsi le mani appoggiate sulle gambe, come se avesse appena ricevuto una lavata di capo. “E’ stata tutta fortuna la tua, dato che l’arrivo di quest’ospite mi ha distratto, e un granello di polvere mi stava quasi per accecare”, borbottò. “Ma non dire idiozie: primo, siamo stati entrambi distratti, secondo, come può essere che un granellino di polvere ti abbia potuto dare fastidio? Ci vorrebbe una paletta e una scopa per togliere tutto quello che ci è finito nell’occhio. Fai prima ad ammettere che sono io il più forte, e a offrirmi la birra come avevamo stabilito”, replicò il vincitore con fermezza. L’altro però sembrava non essere disposto a cedere. Si guardò intorno per trovare una soluzione, mi notò e propose all’amico “Ti faccio una contro-proposta. Scommetto che l’amico qui riuscirà a separare la coppia là in fondo. E’ da ore che stanno lì, senza dire nulla, a tenersi per mano. Ti offrirò da bere se ce la farà”. Il vincitore sembrava incredulo a una mia riuscita “Vabbè certo, ce la può fare. Accetto. Ci stai amico?”.
“Certo che sì, per chi mi prendi?”, replicai io, toccato nell’amor proprio per essere stato sottovalutato. “Attento, è dall’inizio del viaggio che stanno così. Non hanno mangiato, né bevuto, né sono mai andati al bagno. Credo si siano ipnotizzati, o roba simile. Buona fortuna”. Mi alzai dal mio posto mentre quei due mi fissavano beffardi.
Che avrei dovuto fare in quel momento? Non avevo neanche afferrato per intero quello che dovevo fare. Dividerli, sì, ma per quanto tempo? Li potevo dividere fisicamente, mettendomi tra loro e separarli con la forza delle braccia, potevo frapporre una barriera fisica, come un pezzo di cartone, un blocchetto di granito, potevo convincere la ragazza che fosse innamorata di me, tanto da farla scappare con me, lasciando il ragazzo a piangere o a seguirci e a menarmi, potevo fare la cosa opposta con il maschio, lasciando la ragazza basita e me altrettanto, tanto da costringermi a correre via per rifuggire da quella cosa alquanto strana e più che altro non sperata, come cantava un genovese? La disgrazia è che avvenne punto per punto l’ultima cosa teorizzata. Dopo aver tentato e fallito i metodi elencati, pensai che provare non sarebbe nuociuto, anche perché in cuor mio speravo non accadesse, e invece funzionò. Con il sottofondo le risate dei due baffuti e il risveglio dell’eterno addormentato, uscii dal vagone e chiusi la porta per precauzione. Paonazzo e ancora spaventato, ma in fondo lusingato di riscontrare successo anche dall’altra sponda, proseguii nell’esplorazione del treno.
Mi accorsi di trovarmi all’inizio del treno: la ciminiera della locomotiva sembrava vicina. Ero finito nella riserva del carbone, finalmente fuori all’aria aperta, seppure con un caldo pazzesco, il fumo acre e già con l’aroma di combustibile addosso, che mi faceva assomigliare a un minatore inglese dell’ottocento. C’erano di nuovo i conigli a scorrazzare per le colline. Non riuscivo a distinguere con chiarezza cosa facessero, essendo accecato dal fumo. Supposi che stessero facendo le stesse cose di prima, eccezion fatta per il tè, che l’ora era già passata. Non mi curai più dei loro destini.
Un’improvvisa scossa del treno mi fece dondolare pericolosamente, facendo tremare la distesa di carbone fossile. Dei pezzi scivolarono fuori e finirono tra le rotaie. Il convoglio smise di tremare, ma non lo fece il carbone, che continuava imperterrito a scuotersi, a muoversi. Quando meno l’aspettavo, qualcuno riaffiorò, prendendo un profondissimo respiro e una pausa dalla sua nuotata nel carbonio. Il cuore non mi batteva così affannosamente da quando avevo mangiato le costolette nel vagone dei grassi, e il respiro, appena placatosi dalla fuga dallo spasimante, accelerò. Il tizio era in costume, perfettamente pulito. Solo dei solitari pezzetti erano attaccati alle braccia, a cui rimediò strofinandosi con le mani. I capelli erano perfettamente curati, senza polvere, la pelle idem, rosea da far pensare a continui trattamenti estetici. Neanche Zio Paperone, che era capace di nuotare come un pesce baleno sui novanta ettari cubici del suo denaro era riuscito a tuffarsi nel carbone. Invece questo ragazzino ci riusciva e traeva dei benefici. Gli comunicai il mio pensiero. “Come ci riesci ragazzo? Dev’essere dura farlo, neanche Zio Paperone ci riusciva, e lui lo faceva con l’oro, l’argento, il nichel e il rame!”. Mi guardò sorridente, pensò a una risposta e ribatté “Non credo che ci sia una risposta certa. Lo Zione diceva che aveva imparato dei trucchi quando a suo tempo faceva il bagnetto nelle botti. Io sono un minatore, figlio di una famiglia di minatori. Un incidente portò un intera produzione giornaliera a piombarmi in testa. Sopravvissi all’incidente e ci presi gusto. Mi concedevo qualche bagno dopo il lavoro. I miei compagni mi prendevano per matto, anche se poi non ci trovavano nulla di male e mi lasciavano fare. Solo al capo urtava tutto ciò poiché pensava che lavoravo di meno per dedicarmi alle nuotate, infatti mi licenziò per un nonnulla. Allora decisi di lavorare come fuochista nei treni: lavorare a stretto contatto con il carbone, amministrarlo e non più estrarlo, lunghi viaggi, un’intera piscina al mio servizio, il lusso più sfrenato! Il macchinista mi avverte solo quando c’è necessità, e nel frattempo mi lascia indulgere nel mio hobby, bello no?”; “Veramente fantastico, per il tuo caso”; “Oh, sì, lo puoi dire ben forte. Scusami, vado a foraggiare il motore. Non vorrai farci schiantare tutti quanti!”; “Certo che no, fai pure. Dimmi soltanto come fare a raggiungere il macchinista”; “Facile, c’è una passerella di fianco al deposito. Cammina aggrappandoti alla barra apposita, ci sei. Dovresti riconoscerlo subito”; “Grazie, felice di averti conosciuto e affascinato dalla tua storia”; “Oh, non c’è di che”.
Concluse, arrossendo, e andò con la pala in mano a alimentare il motore. Io, con ottimo umore, mi accinsi a oltrepassare l’ostacolo: brividi e un’insolita sensazione di agilità mi accompagnarono. In pochi secondi raggiunsi la postazione del conducente. Lo intravvidi: tuta e cappello d’ordinanza, che manovrava certe leve e certi pulsanti. Dico intravvidi, perché davanti a me si parò il capotreno, che era anche controllore. Uomo minuto e energico, mi fissò con occhi da rospo, arricciò il labbro in segno di disappunto e brandendo un blocchetto di multe, mi apostrofò con voce stridula “Biglietto, prego.” Il biglietto! Oh dio, fu una situazione imbarazzante. Non sapevo neanche che dovessi avere un biglietto. Dissimulai, frugai vanamente per le tasche e arreso dissi “Non ce l’ho, mi dispiace.”. Mi dispiaceva davvero, ma il mio interlocutore non dava segni di pietà. Fumò dalle orecchie e mi trapanò nelle orecchie con la sua filippica “Ah, dannato abusivo! Questi scrocconi, che sperano di cavarsela così, a buon mercato! No, no, non lo permetterò, ti butto giù dal treno!”; “Non può dire sul serio…Oh, caz!”. L’ometto aveva braccia forti.
Il molestatore fu scaraventato fuori dalla metropolitana dal controllore, dopo aver ricevuto le lamentele dei passeggeri per la sua scarsa igiene -era sporco di fuliggine- e per aver molestato diverse persone: un gruppo di persone obese, una coppia, un nuotatore. Scivolò per tutta la banchina, superò un quartetto di musicanti di strada e se ne andò. Prese un bus, anche questo senza biglietto, scendendo nella periferia più sperduta. Incontrò un suo vecchio amico.
“Come stai, compare?”; “Saltiamo ai convenevoli, dammi la roba. Tutto quello che riesco a pagare”.
“Vellocet, Synthemesc, Drencrom, Mescalina, Peyote. Tutto assortito. Divertiti, amico”; “Grazie, grazie”.
Pagò, e si allontanò con il sacchetto colmo di primizie. Superati diversi palazzoni, si ritirò in un vicolo buio. Consumò quanto bastò, e attese perché facessero effetto.
Un’ora dopo si alzò, e disse:
“Devo fare in fretta, sennò il treno parte e mi perdo il viaggio.”