di Renata Rallo
Non c’è una forma legittima per ricordare uno dei più grandi autori della letteratura mondiale.
Corre l’anno 1910, il giorno è il 7 di Novembre, alla stazione di Astapovo muore di polmonite Lev Nikolaevic Tolstoj.
Sono passati precisamente cento anni, il mondo è cambiato eppure qualche cosa pare sia rimasta intatta: pilastri, della letteratura e dell’umana indagine, di filosofia.
Eggià, perché nonostante le sue mancate lauree, prima in Filosofia poi in Giurisprudenza, non possiamo dimenticare ciò che la sua sconfinata cultura, che spaziava dai classici della letteratura greca e della filosofia a Shakespeare, dalla storiografia all’arte, ha prodotto. Tutto questo è un solo uomo, ma decisamente non un uomo qualsiasi: egli è tutto e tutti, è il creatore onnisciente di ogni scena delle sue opere.
Ed ecco che indistintamente, in uno stesso romanzo, troviamo scene di vita quotidiana seguite da trattati storiografici e ancora racconti di sentimenti in “Guerra e pace” tra loro, accostati alla descrizione della società dell’epoca.
La religione e la terra. Probabilmente con questi due termini potremmo definire l’indefinibile cunicolo nel quale ci si addentra leggendo uno dei capolavori di Tolstoj.
La religione intesa proprio come rapporto tra uomo e Dio, un rapporto che ogni personaggio apparentemente o profondamente ha. L’Autore pretende quasi che ogni sua creatura si confronti con quello stesso Dio che causò a Tolstoj una profonda crisi religiosa. Un Dio che improvvisamente si manifesta al principe Andrej sul campo di battaglia o che da sempre accompagna la principessina Mar’ja e lo stesso al Quale Anna Karenina chiede di essere perdonata.
La terra. La terra dei contadini durante la riforma dei Kulaki, ma anche quella degli affetti, delle gioie e dei patimenti. La terra sulla quale l’armata russa combatte l’estenuante guerra contro il liberticida Napoleone. La terra, i possedimenti di famiglia nei quali i Rostov vanno a caccia; la serenità della famiglia e la familiarità nella quotidianità.
I personaggi creati da Tolstoj sono indimenticabili; che si tratti del principe Oblònskij oppure della piccola ed ingenua Natasa. Egli riesce a penetrare tanto profondamente la loro essenza da riuscire a definirla fino ad ogni angolo più oscuro. Tolstoj ci accompagna a conoscere tutto ciò che ha creato e tutto sembra permeato da un certo qual determinismo per cui a noi pare che nulla di ciò che leggiamo possa andare diversamente da come raccontato. Nonostante ciò, (e può confermare chi ne abbia fatta esperienza nella lettura), niente è scontato ma tutto ci travolge emozionandoci in ogni fibra dell’essere.
Guerra e Pace, Tenebra e Luce. Binomi dell’uomo e della sua natura. Mai l’Autore permette a qualunque sua creatura, a qualunque sentimento di non essere altro che duplice. La bellezza di una donna rinata da un nuovo amore e la morte che ne consegue; l’ingenuità e la vitalità di una ragazza che la portano fin quasi all’annientamento di sé.
Dunque il Tutto è la chiave di volta dei suoi romanzi ma ciò che davvero non può essere detto è ciò che lo stesso Tolstoj non ci ha raccontato, ciò che ha scorto ma non umanamente capito, perché il limite è sempre la vita. Il limite è quello di non poter raccontare ciò che accade dopo, quando la luce della vita “s’infiamma di un bagliore più vivido che mai, rischiarando tutto quello che prima era nelle tenebre” per poi affievolirsi. La morte porta con sé la conoscenza di tutto ciò che in vita è oscurato, ma chi riuscirà mai ad essere tanto vicino a questa consapevolezza da far quasi sì che uno spiraglio di luce si apra anche su di noi?