Si sente spesso parlare di (iper)globalizzazione, flussi finanziari, grado di mobilità dei capitali, interdipendenza tra economie. Dani Rodrik, eminente economista di Harvard, ha cercato di fare chiarezza e di esporre il proprio punto di vista sull’argomento all’interno di quello che è considerato uno dei principali testi di economia degli ultimi anni, “La globalizzazione intelligente” (ed. Laterza, 20€).
La trattazione è ampia e diversificata. Rodrik parte dalla crisi finanziaria asiatica che nel ’97 ha colpito principalmente Tailandia, Indonesia e Corea del Sud: economie cresciute rapidamente nel giro di pochi decenni, si ritrovarono “ridotte a brandelli” a causa della sfiducia di banche internazionali e imprenditori, e gli investimenti divennero praticamente nulli. In questo caso l’insegnamento che possiamo trarre dall’accaduto è che per un governo è pericoloso fare affidamento esclusivamente sul valore della propria valuta quando i capitali finanziari sono liberi di spostarsi da un paese all’altro.
L’autore si sofferma poi su quello che egli stesso definisce il “ventre molle” della globalizzazione, vale a dire quell’eccessivo divario esistente tra l’ambito nazionale dei governi e la natura globale dei mercati. La questione ha un’enorme rilevanza, poiché non riguarda soltanto l’ambito economico ma, ad esempio, anche quello giuridico, con lo stesso squilibrio che si crea anche tra il diritto pubblico e il diritto internazionale. Il contesto interno è infatti disciplinato da enti, istituzioni e sistemi di regolamentazioni; tutto questo viene a mancare in un contesto più ampio, dove una governance debole fa avvertire l’assenza di un organo centrale capace di garantire pace e sicurezza, varare e far rispettare delle leggi e sovvenzionare beni pubblici. Il ruolo dello Stato è dunque fondamentale per il corretto funzionamento del mercato interno, e in questo Rodrik si oppone senza mezzi termini alla dicotomia smithiana “mercato – Stato”, considerandola un trade-off errato. Tuttavia, se è vero che il commercio produce utili ogni volta che qualcuno possiede qualcosa che ha più valore per uno e meno per un altro, è altrettanto vero che esistono i cosiddetti “costi delle transazioni” (spese per infrastrutture, trasporti, sistemi di logistica, legalità, fiducia, ecc) che impediscono ai contraenti di godere di vantaggi reciproci. Tali costi sono sicuramente maggiori negli interscambi a livello internazionale, ma possono essere ulteriormente accresciuti da alcune manovre interne che rischiano di ostacolare o disincentivare le transazioni con l’estero, e di intralciare il volume del commercio complessivo. Ecco dunque il “rompicapo della globalizzazione”: lo Stato è, da un lato, indispensabile al funzionamento dei mercati interni ma, dall’altro, rischia di costituire l’ostacolo fondamentale alla creazione dei mercati mondiali.
Interessante il contributo centrale dell’autore, che spiega il “trilemma”: non è possibile perseguire contemporaneamente obiettivi di iperglobalizzazione, sovranità e indipendenza dello Stato nazionale, e creazione e gestione di istituti democratici. Tale incompatibilità induce a prendere delle posizioni, poiché la scelta di una coppia tra le tre possibili comporta l’inevitabile rinuncia al terzo elemento. L’invito di Rodrik è quello di provare a perseguire una globalizzazione moderata, guardando agli esempi della storia (il mercato protetto di Bretton Woods), tenendo sempre presente che lo scontro tra i diritti delle democrazie e le istanze dell’economia globale dovrebbe in ogni caso concludersi con un passo indietro da parte di quest’ultima.