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Uscire, o non uscire, questo è il dilemma

Giuseppe Civati

Giuseppe Civati

di Emanuele Grillo

Da sempre, il dubbio amletico rappresenta una tappa obbligatoria dell’essere umano. Tutti, prima o poi, ne vengono assaliti. Per fare una scelta, per scegliere una persona, per seguire un’ideale, per percorrere una strada piuttosto che un’altra. Ma vi è un filosofo contemporaneo (professione che calza a pennello), prestato alla politica, che ama particolarmente crogiolarsi in questo dilemma esistenziale, analizzandone acutamente ogni aspetto, smussandone perspicacemente ogni angolo. Si sta parlando di Giuseppe Civati.
Profilo talentuoso e di grande competenza: ma è sufficiente? Si può considerare esaustivo un metodo ciclicamente improntato sui “se” e i “ma”? E ancora, quanto tempo deve trascorrere prima che l’opposizione indulgente si trasformi, essenzialmente, in accordo velato?
Quello del dubbio, del perbenismo frivolo e della lotta al leader despota – che però ti fa vincere le elezioni – sono dei vizi rivolti, storicamente, a tutte le compagini politiche. Ma quelli di sinistra ne sanno qualcosa in più. Compagni (un tempo) in parole, nemici nei fatti. E il giovane politico monzese sembra non riuscire a scardinare le cattive abitudini del passato, inchiodato tra l’ansia di votare decreti legge controvoglia e la paura di una probabile scissione, con tutto ciò che apporterebbe una decisione di questo tipo; in termini numerici, di credibilità e di proposte alternative. Dalla Leopolda I e il ruolo di “primo renziano”, Pippo ne ha fatta di strada, cercando sempre di rispettare una personale linea di coerenza che ciascuno adopera – si spera – durante la propria vita, pubblica e privata. Desiderava e sembra ancora desiderare una rivoluzione democratica/socialista sincera e moderna, indubbiamente di contrasto con molti aspetti della politica (di ogni schieramento) del passato, specie i più negativi. Come la corruzione, la compiacenza alle mafie, le infiltrazioni criminali nei palazzi della Repubblica, il calpestamento dei diritti civili, l’assenza di meritocrazia e di lungimiranza, il conservatorismo bieco di una destra acquistabile e fumeggiante come di una sinistra avara ed individualista, le sovrastrutture e i conflitti tra poteri forti che lasciano poco spazio alle nostre meningi per i concetti di laicità (che non significa andare contro i culti e le professioni religiose, tutt’altro) e di progresso.
L’Italia è uno strano paese, florido di matasse, sovraccarico di confusione e bizantinismi: in Italia è difficile poter esprimere realmente una propria visione, senza rischiare d’essere etichettato come democristiano, comunista, fascista. La paradossale varietà e vicinanza di molte realtà, in altri luoghi del mondo distanti fra loro, contribuisce ad una mescolanza di aspetti che rendono quasi impossibile un dialogo sano, non strumentalizzato, al riparo dalle continue tirate per la giacca di fazioni troppo impegnate nel farsi la lotta. Si è ancora troppo ancorati ad alcune congetture, il che non sarebbe del tutto sbagliato se non fosse per un piccolo dettaglio, non trascurabile: non si è legati a queste parole, piuttosto al ricordo e alle reinterpretazioni delle stesse, il più delle volte superficiali ed opportunistiche, che sconvolgono radicalmente passato e presente, creando un ecomostro di nuovi ideologismi, figli di nessuno, tranne che dell’ignoranza, del bigottismo, del pregiudizio.
E quando ignoranza, bigottismo e pregiudizio camminano fianco a fianco, è facile conquistare la compiacenza del popolo, anche con la deriva culturale e professionale dei suoi interpreti. Si parla del ventennio berlusconiano, del malinconico Movimento Sociale Italiano post-fascista che (Giorgio Almirante escluso) ha espresso ben poco di innovativo in termini liberali, dei dubbi di Enrico Berlinguer sul mondo partitico e sulla socialdemocrazia riformista italiana, della risposta mediocre del MoVimento Cinque Stelle del duo Beppe Grillo – Gianroberto Casaleggio in un panorama socio-politico ed economico altrettanto mediocre. Questi tre mali contaminano continuamente i ragionamenti, portano a creare divisioni, come tra politica ed antipolitica; questi tre mali portano solo confusione e quest’ultima è l’alleata più fedele dei furbetti, degli arrivisti, dei corrotti. La confusione fa credere che la colpa sia tutta degli immigrati, fa dimenticare della mala distribuzione della ricchezza nella popolazione, fa sentire nel giusto quando ci si ribella di pagare le tasse perché troppo alte, fa dimenticare che se tutti facessero il proprio dovere l’Italia sarebbe un Paese più vivibile.
“Fare il proprio dovere”, ciascuno nei ruoli in cui è chiamato a svolgere la propria attività lavorativa, nonché il proprio contributo politico e sociale. Se Civati vuole battersi realmente per le sue aspirazioni, allora deve portarle avanti fino in fondo e senza indugi: anche a costo di scomparire dalle istituzioni, anche a costo di non raggiungere il quorum, anche a costo “perdere” la carriera. Altrimenti anche lui, seppur coscientemente (il che forse è peggio), continuerà ad alimentare quel marcio che sgretola ogni giorno il Paese, sperando sempre in una “prossima occasione” che forse non arriverà mai, in quello spazio politico. Perché è giusto difendere l’unione, quando però gli intenti coincidono e gli obiettivi diventano comuni: altrimenti è solo ipocrisia, è sopravvivenza, è finta opposizione.
Elementi che cambiano lentamente le coscienze. Una colpa, quella del complice ignavo e dubbioso che, visti i tempi, non è possibile permettere.