Momenti concitanti in una Grecia al voto: il partito Syriza di Alexīs Tsipras si avvicina alla maggioranza assoluta (151 seggi su 300 al Parlamento ellenico). Quello che si prevede è il primo Governo anti-troika dell’Unione Europea. La campagna elettorale condotta da Tsipras in questi ultimi anni si è concentrata proprio sull’avversione nei riguardi della politica di austerity imposta da Bruxelles, con il beneplacito della Germania. Dall’inizio del 2008, il Paese ellenico ha subito tagli netti e riduzioni significative del PIL: una disoccupazione dilagante (quella giovanile ha raggiunto il 60%), una recessione che soltanto al termine del 2014 ha constatato un lieve cambiamento di rotta (+0.7%) e famiglie costrette a bruciare i mobili di casa per scaldarsi, vista l’impossibilità di pagare le bollette per i riscaldamenti.
Un Paese che senza dubbio ha subito la crisi più degli altri non per caso: la spesa pubblica incontrollata, con un conseguente aumento del debito, un calo della fiducia dei mercati, l’insofferenza nel rispettare tutte le obbligazioni, l’innalzamento dello spread e, per finire, il piano di austerità approvato dall’Eurozona e dal FMI il 2 Maggio del 2010, che prevede un prestito di salvataggio da 110 miliardi di euro: un processo giusto per il risanamento economico, ma massacrante per i cittadini ellenici, in un Paese che ha pagato l’aiuto internazionale con il default, perché non più in grado di vendere i propri titoli di debito a condizioni di mercato. Oltre che le imposizioni di spesa e d’investimenti interni: sostanzialmente, quindi, la Grecia non è dipendente di se stessa. Può essere paragonata ad un paziente grave (ma stabile) in cura, incapace di decidere della propria sorte, interamente affidata a dei medici il cui scopo è quello di mantenerlo in vita. Un paziente deperito, sciupato, senza forze: l’esatto identikit ellenico. L’esatto profilo di un Paese obbligato a portare il suo debito pubblico (179% alla fine del 2014) entro la soglia minima del 120% entro il 2020. Soltanto così la Grecia potrà ritornare ad avere un po’ di indipendenza; soltanto così la Grecia potrà riaccedere liberamente ai capitali privati per la copertura dei fabbisogni finanziari (piuttosto che vendere le isole del Mar Egeo agli sceicchi). Ammesso e concesso che il Paese non muoia prima, insieme ai suoi cittadini che da un lustro anni vivono in perenne stato di crisi civile, sociale, politica ed economica. Perché è giusto salvare il paziente, ma sarebbe bene non ridurlo ad uno stato vegetativo di non-vita. Così come questa non è ripresa, ma austerità. Non sono investimenti, ma tagli. Non è speranza, ma condanna sottintesa per molti anni ancora.
Nelle elezioni europee dello scorso anno, il vento anti-troika si è fatto spazio tra i palazzi di Bruxelles e Strasburgo. E le politiche di sinistra anti-austerity non sono le uniche voci dissonanti del coro dei Paesi dell’Unione: uno degli altri effetti di critica delle scelte economiche adottate dal nostro Continente si sono tradotti in forti euroscetticismi ed in iper-sciovismi, diffusi un po’ ovunque: dalla Lega Nord e il M5S nostrano, al Front National in Francia, all’UKIP nel Regno Unito e ad Alba Dorata, proprio in Grecia. Due risposte allo stesso problema: la crisi e il metodo con cui si è scelto di adoperare in Europa. Metodo che ha allontanato gli Stati membri, metodo che ha privilegiato le banche alle popolazioni locali, metodo che ha preferito tagliare piuttosto che investire, metodo che ha favorito alcuni Paesi su altri. Soltanto dall’inizio del nuovo anno il Presidente della BCE, Mario Draghi, ha deciso di attuare un piano di finanziamento con 60 miliardi al mese messi sul piatto, che accosta il Quantitative Easing dell’Eurozona allo stesso livello degli Stati Uniti.
E adesso Tsipras dovrà prepararsi a fronteggiare il Paese più in crisi del nostro continente: ha già ribadito che rifiuterà le imposizioni di Bruxelles. Tutto sta nel vedere come e perché. Tutto sarà deciso dalla ricetta alternativa che il nuovo Governo ellenico tiene in riservo per i suoi cittadini. Una cosa è certa: in un momento di crisi così imponente, l’Europa non dovrebbe dividersi, non dovrebbe covare sentimenti inutili e separatisti; più saggio sarebbe puntare su un’Europa più unita, più forte, più amalgamata. E senza Nazioni di Serie A e di Serie B.
Se qualcosa va storto, è necessario cambiar cura. Non distruggere quello che, con tanta fatica, si è costruito. Non bisogna rifugiarsi nei nazionalismi, né perdersi negli euro-dogmatismi.