Dare vita a un mondo “purificato” da tutto ciò che non fosse ariano. Questo, in sintesi, il contenuto del progetto nazionalsocialista influenzato dal “Mein Kampf” hitleriano e destinato a proseguire in direzione della “soluzione finale”. I nazisti del Terzo Reich, autolegittimatisi nei loro comportamenti con alcuni costrutti giuridici come le leggi di Norimberga, tra il 1939 e il 1945 eliminarono sistematicamente oltre sei milioni di Ebrei. Uomini dapprima ghettizzati e poi deportati in campi di concentramento e sterminio. Auschwitz, Treblinka, Mauthausen o Dachau, solo per citarne alcuni, sono nomi che evocano orrore. In questi luoghi gli ufficiali nazisti colpirono i prigionieri annullando la loro dignità di uomini, prima di ucciderli. I più forti e fisicamente resistenti erano scelti per lavori durissimi e quindi temporaneamente “salvati”, mentre tutti gli altri erano destinati alle camere a gas. Un contributo di fondamentale importanza nella letteratura sull’Olocausto deriva da “La banalità del male” di Hannah Arendt, la quale seguì il processo Eichmann come inviata del New Yorker a Gerusalemme. Eichmann aveva lavorato all’ufficio centrale per la sicurezza del Reich e coordinato i trasferimenti degli Ebrei verso i campi di prigionia, e per queste colpe fu condannato a morte. Il tema centrale di questa riflessione è tuttavia l’idea della Arendt che il pensiero, il fatto stesso di pensare, avrebbe potuto evitare azioni malvagie. Atti inenarrabili furono compiuti da uomini assolutamente “normali”, che non avevano nulla di “mostruoso o demoniaco”, ma la cui incapacità di pensare li spingeva verso una cieca obbedienza agli ordini ricevuti. Le idee distorte del nazismo tedesco poggiavano inoltre su razzismo e antisemitismo, piaghe che avevano costretto il popolo ebraico a anni di grandi diaspore ed esodi in giro per l’Europa. Con il tempo, un concetto dalle origini secolari come quello di razza è stato screditato e privato di ogni validità scientifica, sottolineando che un gruppo più o meno numeroso può sviluppare al massimo una propria identità magari anche condividendo delle tradizioni, e la componente religiosa può giocare un ruolo determinante. La responsabilità contemporanea diventa così quella di rimarcare con fermezza l’accaduto e di stimolare continui dibattiti. Oggi come ieri è fondamentale ricordare. Ricordare innanzitutto per onorare la memoria delle vittime innocenti della follia dell’uomo sull’uomo, ma anche per impegnarsi a distruggere, colpendoli alle fondamenta, quei rigurgiti negazionisti che, oltre i limiti dell’assurdità, hanno l’ardire di non ammettere il peso e la gravità di una storia tanto reale quanto vergognosa. Questo vale per lo sterminio di ebrei, gruppi Rom e Sinti, omosessuali e malati di mente durante l’Olocausto, così come per il genocidio armeno perpetrato dai turchi, per le deportazioni in Siberia e nei gulag, per il massacro delle foibe legato al nome di Tito, per le tribù indigene africane, asiatiche e sud americane colpite dalla violenza dei coloni bianchi già molto prima del celebre “scramble for Africa” ottocentesco, e per le varie pulizie etniche, note come “pogrom”, di cui l’umanità si è macchiata in maniera indelebile. Per non dimenticare.
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