BERLINO – Al via la 65esima edizione della Berlinale, principiata ieri sera con l’anteprima del nuovo film della regista spagnola Isabel Coixet, “Nessuno vuole la notte”, con Juliette Binoche. A differenza di Cannes, il festival non é esclusivo per gli addetti ai lavori e non ha un unico teatro nella sede principale (il Berlinale Palast), ma coinvolge ogni tipo di pubblico in tantissime sale, raggruppate perlopiù nella cittadella cinematografica della modernissima e futuristica Potsdamer Platz, sorta di Vaticano della settima arte, dove si erge un museo del cinema, una cineteca tra le più rinomate del mondo e numerosi multisala. L’aria che si respira é quella di un evento assolutamente culturale e intellettuale, vivace, entusiastico, gioioso nonostante la rigida temperatura e le resse nevrotiche, e persino i fronzoli più frivoli, come un tappeto rosso, il vestito della star o i vetri fumé di un’auto privata, passano in secondo piano rispetto al film: del resto, come dovrebbe essere. I film in anteprima mondiale sono 162, per tacere poi dei cortometraggi, dei documentari, delle retrospettive di film classici e restaurati, degli omaggi (Wim Wenders, Francesco Rosi) e di eventi prettamente pubblicitari, tra nuove promesse e autori consolidati. Inevitabile, dunque, fare una cernita di film da vedere, tra le varie sezioni del festival. Un assaggio generale ad ogni buffet, una panoramica di gusti e sapori da tutto il mondo, sazierà ogni giorno l’appetito dei cinefili.
La mattina del 6 Febbraio si apre con l’anteprima per la stampa del nuovo film del cineasta tedesco Werner Herzog, che all’età di 73 anni si conferma uno dei registi più prolifici ed eclettici del panorama mondiale. Il suo “Queen of the Desert”, in competizione per l’Orso d’oro, é una produzione internazionale, che vanta un cast di stelle come Nicole Kidman, James Franco, Damian Lewis e Robert Pattinson. Il film racconta, con un’enfasi epica e melodrammatica che ricorda nel bene David Lean e nel male “Il paziente inglese”, la vicenda biografica di Gertrude Bell (1868-1926), archeologa, scrittrice, avventuriera, infine politica e agente segreta britannica nelle terre dell’allora impero ottomano. L’epoca (gli anni 1903-1915), i luoghi (il Medio Oriente, il deserto, il mondo arabo) e le atmosfere epiche ricordano in più di un punto il leggendario “Lawrence d’Arabia”, e infatti un giovanissimo T. E. Lawrence qui compare, col volto appunto di Robert Pattinson, come referente e guida al mondo orientale per l’addomesticata signora Bell: la quale cresce negli agi e nella noia dell’alta società, fugge a Tehran a cercare nuova linfa vitale, vi trova l’amore per il diplomatico Henry Cadogan (James Franco) finito ben presto con la tragica morte di lui, per poi dedicarsi unicamente ed esclusivamente alla sua patria, rappresentando il ponte culturale e diplomatico con un mondo arabo allora in pieno disfacimento e in piena rinascita, oltre che coprendo un ruolo decisivo durante la prima guerra mondiale. Dopo un prologo sentimentale e tragico, segue una seconda parte prettamente storica, meno romanzata e più vicina alla storia vera, ma anche assai meno interessante, soffocata da una densitá di cronache ed eventi (piú militari, politici, storici che altro) che rischia di creare confusione e noia, non fosse altro per un tono pomposo e magnifico, d’altri tempi, che non si misura con un’epica davvero reale e sentita, bensì con una freddezza che tradisce impersonalitá. Si riconosce Herzog nell’uso “volatile” di una camera che si insinua e si muove con leggerezza e tremito ai personaggi e ai luoghi, e si apprezza enormemente la fotografia di Peter Zeitlinger che trasporta lo spettatore tra le suggestive dune del deserto e maestose architetture islamiche: ma tanto virtuosismo visivo non può bastare a compensare un film magniloquente, sontuoso, ma assai più piccolo delle sue ambizioni. Congiungendo la storia individuale, sentimentale, umana di una donna assolutamente unica e la storia con la s maiuscola, il film si perde nel mezzo non creando quella giusta ipnosi e quel giusto fascino che le grandi storie cinematografiche e i personaggi leggendari dovrebbero provocare. Nella sua costruzione melodrammatica, quasi manieristica, si riflette il cinema di un tempo, con al centro una diva assoluta (la Kidman, seppur talvolta monocorde, letteralmente eclissa i suoi bellocci colleghi maschili, del resto relegati a ruoli secondari) e un tema eroico (la Bell fu sempre considerata come l’equivalente femminile di Lawrence d’Arabia), ma di nuovo, di mai visto, di emozionante, di geniale (considerata la firma) non c’è niente.
Nella sezione Panorama, in un certo senso la sorella gemella di Un certain regard cannese, é sorprendente invece il film “El incendio”, del regista argentino Juan Schnitman, alla sua prima opera in solitario dopo due film co-diretti. Lucìa e Marcelo, trentenni, sembrano una coppia felice, appassionata, proiettata a un futuro insieme. Appunto, sembrano. Un evento minimo – il notaio che deve fargli firmare il contratto per la nuova casa sposta l’appuntamento al giorno dopo – allenta l’intesa e fa improvvisamente scoppiare una bomba di crisi e dubbi, paranoie e sospetti, che portano la coppia alla sua rapida, inarrestabile e dolorosa distruzione. I due si allontanano, si ritrovano, si separano, si feriscono, si lacerano, si causano violenze fisiche e psicologiche, si amano, si odiano, impazziscono d’amore e di rabbia, per frustrazione e paura: il tutto in 24 ore frenetiche e nervose, distruttive e infine ricreative. L’amore finisce e rinasce come una fenice. Dramma quasi di interni, di intimo psicologico, di conflitti aspri e tensioni sibilline, con appena due momenti in cui i protagonisti sono davvero separati (cioè, al lavoro: lei cuoca, lui insegnante al liceo, utile per capire la crisi dal punto di vista individuale), questo piccolo grande film trova l’universale nell’intimità, dolce e feroce, di una coppia in disfacimento, due personaggi simboli e vittime e carnefici di un mondo violento, dove alla tragedia – che non si vede, ma esiste, si sente – corrisponde una catarsi, una riconciliazione, un lieto fine tanto più tenero perché inaspettato. Schnitman (1980) ha realizzato un film maturo e potente, che, sulla falsariga de “Il disprezzo” di Godard e di “Scene da un matrimonio” di Bergman, compone un’autopsia dettagliata dell’amore, della relazione uomo-donna: si affida a primissimi piani, pedinamenti, uso costante di una camera a mano frenetica e compulsiva, e soprattutto piano-sequenza di formidabile impatto e precisione certosina, che riescono a portare magnificamente lo spettatore nella scena, nella pelle dei personaggi, finanche nelle loro anime, creando un’identificazione totale con loro e offrendo un ventaglio naturalistico delle sensazioni umane, tanto fisiche quanto psicologiche. Puro cinema dello sguardo, intenso e seducente, costruito sul potere della regia, sul dialogo e soprattutto su un duetto/duello di attori assolutamente strepitoso: Pilar Gamboa e Juan Barberini sono eccezionali, ora freddi ora caldi, ora emotivi ora distaccati, animati da una violenza irascibile e da una malinconia commossa, esemplari nell’appassionata sequenza erotica nel garage, più vera del vero.
Sempre in Panorama viene presentata l’opera prima del francese Jean-Gabriel Périot (1974), già autore di vari cortometraggi, il documentario “Une jeunesse allemande”. Costruito interamente con immagini d’archivio e senza alcun commento, il film ripercorre i turbolenti anni ’60 nell’allora Repubblica Federale Tedesca, con le proteste giovanili, le tensioni politiche tra nuove frangi comuniste o fasciste, la crescita di alcuni movimenti e l’ascesa e il declino della Banda Baader-Meinhof, tristemente famosa per i suoi atti di terrorismo. Assistere a un documento di storia tedesca nella sua capitale fa certo un grande effetto, e la sala gremita segue con molta emozione: tuttavia l’esordio di questo autore resta troppo in un ambito pedagogico, didattico, illustrativo per poter assurgere a vero punto di vista. Persino il semplice montaggio di immagini d’archivio, utilissime a comprendere l’epoca dei fatti, denota il lavoro di uno storico, ma non di un artista.
Un’altra opera prima, questa nella sezione “Forum”, é il film del coreano Kim Dae-hwan (1985), “End of Winter”, centrato sul personaggio di Sung-geon, un anziano professore che in un colpo solo va in pensione e annuncia la sua volontà di divorziare dalla moglie, uno shock per lei, per i figli, per la nuora, che insieme vivono questo momento di crisi, dove tutto – le radici, l’avvenire – é messo in dubbio. Esistenzialista e minimalista, il film si svolge in una cittadina, Cheolwon, innevata e glaciale, in cui il nucleo familiare é, letteralmente e metaforicamente, bloccato, senza possibilità di salvezza. Altrettanto freddo e rigido é il plot, che si vorrebbe intimista e universale, e finisce invece per essere nient’altro che un quadro familiare fatto di ripetizioni, conflitti stantii, litigi, psicodrammi, che già sul breve andare stanca, provocando una noia che sfiora il sublime. Non solo il tema (la famiglia in crisi, la senilità) ma anche lo stile, secco, senza musica, senza emozione, senza movimento, con inquadrature fisse e interminabili, richiamano a Yasujiro Ozu e al suo “Viaggio a Tokyo”, specie per la costruzione grafica delle scene conviviali e prandiali (la macchina da presa ad altezza di tavolo giapponese), ma l’effetto é se possibile ancora più devastante.