di Marco Chiappetta
BERLINO – Nella mattinata del 7 Febbraio ha visto la luce, o per meglio dire il buio, il nuovo film del regista francese Benoît Jacquot, “Journal d’une femme de chambre”, adattato, come già gli omonimi film di Jean Renoir (1946) e Luis Buñuel (1964), dal famoso romanzo di Octave Mirbeau (1900), sguardo implacabile e critico sulla società borghese del tempo vista con gli occhi di una domestica. Celestine (Léa Seydoux), cameriera all’apparenza dolce e servizievole, nasconde un’anima ambiziosa, maliziosa e senza scrupoli: dopo essere passata di casa in casa, per via di un carattere non facile, si stabilisce in una provincia della Normandia, a servizio della ricca famiglia Lanlaire, lui grasso e avido di sesso, lei acida e tirannica. Le condizioni della servitù sono estremamente spiacevoli e Celestine, iniziando a conoscere il mondo e specie quel mondo, decide di usare le sue buone maniere e la sua bellezza per ottenere ciò che vuole. La sua é una lenta insurrezione, una presa di coscienza, e un insinuarsi tanto viscido quanto proficuo nella retta società: con ogni mezzo e ogni smorfia possibile. Osserva, provoca, reagisce, tenta e si lascia tentare.
Il film, permeato di una sensualità torbida che non é mai volgare o gratuita, possiede una raffinatezza notevole, ottenuta con una regia molto precisa e un lavoro sui luoghi, gli arredi e i costumi dell’epoca (la Belle Epoque) davvero convincente. Anche la storia, pur se già nota, ha un ritmo discreto. Peccato che appunto la discrezione e la raffinatezza restino le sole cifre di un film stilizzato e bello a vedersi, al quale manca il genio, il guizzo, finanche un senso compiuto per renderlo diverso dalla produzione standard dei film francesi: assai delicato, di classe, professionale e di gran qualità, ma troppo esteticamente calcolato e pianificato per scaldare o turbare gli animi. Délicatesse française, déjà vu.
In replica, per i ritardatari, il nuovo film di Jafar Panahi, il regista iraniano condannato dal governo del suo paese a sei anni di reclusione e a un divieto di fare film per vent’anni, in quanto nemico dell’Iran e dell’Islam, insomma in buona compagnia con tanti altri artisti “scomodi” in quanto liberi. Con coraggio e dignità, Panahi dal 2010 non ha rinunciato alla sua libertà/volontà di espressione artistica, e ha continuato in un modo o nell’altro a fare quello che sa, vuole e deve fare, il cinema. Sostenuto già nel 2013 dalla Berlinale, quando fu proiettato e premiato (per la sceneggiatura) il suo “Closed Curtain”, Panahi vi fa il suo ritorno con “Taxi”, in competizione.
É un esperimento cinematografico curioso e originale: lo stesso Panahi si camuffa come tassista a Tehran e posiziona nell’auto una mini telecamera che osserva, scruta, interroga tutti i passeggeri. Che lo riconoscano o meno, tutti i personaggi che salgono sul taxi si mostrano per ciò che sono, i volti veri e multiformi di un paese e di una città. Tra le tante figure tragicomiche e umane: un nano venditore di dvd tarocchi, un moribondo, due matrone superstiziose con un pesce rosso, una simpatica nipotina saccente e filosofa. Il tono quindi cambia dal serio al faceto, dal grottesco all’aneddotico, e il taxi diventa metafora del mondo e dei suoi incontri, ma anche della solitudine e della prigionia del protagonista, che attraversando una città di cui non sa nulla (paradossalmente e simbolicamente il tassista non conosce le strade di Tehran…) si erge a spettatore, osservatore, intervistatore e spesso anche filosofo-oratore di un mondo e di una realtà parziali e non definitivi. Prevale l’aspetto documentario, antropologico, sociale, ma anche la riflessione sul cinema trova il suo spazio: sperimentando le nuove tecnologie video, tanto economiche quanto semplici, e promuovendo con la parola la necessità di raccontare storie, il regista esplora nello huis clos del taxi le possibilità comunicative del cinema, facendo a tutti gli effetti un metafilm, un work in progress, un’opera sperimentale che si fa al momento, davanti a noi. Lo sguardo di Panahi, fino all’ultima, assai significativa immagine, é disincantato, quasi ingenuo, ancora innamorato della vita e dell’umanità, nonostante tutto.
Un altro esercizio sperimentale e metacinematografico, purtroppo assai acerbo e incompiuto, é l’opera prima del regista messicano Joshua Gil (1976), “La Maldad”, presentato nella sezione Forum, che racconta, o forse documenta, l’itinerario di un uomo anzianissimo, dalla campagna rudimentale dove ha sempre vissuto a Città del Messico, per proporre a un produttore cinematografico la sceneggiatura della sua vita e dodici canzoni da lui scritte. Il progetto é folle, l’uomo non ha niente e quindi niente da perdere: il distacco dalla natura e il confronto traumatico con la civiltà lasciano l’uomo ancora più solo. É un film strano, insoddisfacente ed immaturo, in cui la povertà di idee pesa ben più di quella dei mezzi. Gli attori, presi dalla “realtà”, sono piú amorfi che spontanei. La camera indulge in un realismo quasi amatoriale, contemplativo, alienante, per cui la finzione, pur desiderata, non é possibile e nemmeno credibile: lo straccio di storia del resto non regge gli intenti, e le conclusive connotazioni politiche e sociali non fanno che alimentare la confusione di un film abbozzato, scialbo, a cui manca proprio il nervo vitale.