di Marco Chiappetta
BERLINO – Il nuovo, bellissimo film del cileno Pablo Larraìn, “El Club”, lo conferma uno dei talenti più vivaci e brillanti del cinema sudamericano e non solo. Provocatorio, ambiguo e oscurissimo, il film racconta di quattro preti in età più o meno matura (i padri Vidal, Silva, Ortega e Ramirez) confinati, sotto la guardia di una suora, Madre Monica, in una casa sulla spiaggia oceanica di La Boca, praticamente la fine del mondo. Questa clausura, questo esilio forzato, sono dovuti a un segreto che non tarda a venire alla luce. Un altro prete, Padre Lazcano, malinconico e tormentato, arriva nella casa-prigione, e quando un uomo sciroccato e problematico, tal Sandokan, si presenta fuori la loro porta urlando oscenità e resoconti di uno stupro subito in infanzia da un prete, il neo-arrivato si spara alla testa. La Chiesa non se ne capacita e manda un emissario, Padre Garcìa, giovane prete progressista e psicologo, a indagare sull’avvenuto, ma ciò che scopre convivendo coi quattro preti e la suora è l’orrore nascosto, velenoso, impronunciabile, quotidiano e quasi naturale, che il clero ha isolato, il crimine perpetuato e reiterato, lo scandalo di una sessualità abusata senza remore, giustificata senza pudore, la meschinità feroce di uomini di potere condannati a una vita di pentimento dopo una vita di peccati, un club di privilegiati che ancora continua a esercitare potere, violenza e ipocrisia, per continuare a esistere, non importa dove né come.
L’atmosfera di questo racconto atroce, terribile, pervaso da un humor nero irresistibile e da momenti di climax tragico altissimi, é tanto cupa quanto conturbante, grazie al meraviglioso lavoro su luci e ombre, non solo simboliche, dell’opaca, quasi sfocata fotografia di Sergio Armstrong – che punta la camera praticamente contro la luce, creando una sorta di nebbia –, ma anche per l’impianto sonoro, tra i costanti rumori del vento e delle onde oceaniche e il leit-motiv tragico e solenne della musica di Arvo Pärt. Il regista non risparmia nulla della crudeltà umana e degli scandali della Chiesa, e con violenza, cinismo, pericolosa ambiguità traccia un racconto appassionante e stupefacente, costruito con intelligenza, poesia visiva, un senso del cinema, della tensione e del dialogo assolutamente eccezionali. Si interroga sull’uomo, il pentimento, il perdono, la colpa, la follia, e il tema del potere clericale e della pedofilia, pur sconvolgenti e forti come un pugno, sono tanto un mezzo che un fine, una destinazione.
Tuttavia non solo la storia in sé e il modo di rappresentarla per gli occhi e per le orecchie fanno di “El Club” una vera gemma, ma anche la strepitosa direzione degli attori che rivela una padronanza degli elementi cinematografici matura, completa e convincente. Un vero successo, che meriterebbe di essere premiato.
Sempre in competizione, convince e appassiona il film tedesco “Als wir träumten” (in inglese “As We Were Dreaming”), diretto da Andreas Dresen e tratto dal romanzo di Clemens Meyer, storia di amicizia virile e tradimento, amori e speranze fallite, droga e violenza, nella periferia di Lipsia subito dopo la caduta del muro di Berlino. Leader di un gruppo di giovani teppisti outsiders dediti a droghe, alcol, risse, bravate e rave techno, e attorno alla loro discoteca underground, Dani e Rico sembrano inseparabili come fratelli, ma gli eccessi smisurati, l’anarchia fine a se stessa e gli scontri costanti con una feroce banda di naziskin li portano gradualmente a un distacco graduale dalle cose, perfino dell’amicizia.
La brutalità energica e immorale di questa adolescenza furiosa si scontra coi ricordi di un’infanzia illibata e ingenua, come a mostrare i due volti della Germania, prima e dopo la caduta del muro. Potente sul piano visivo, sonoro e narrativo, il film però risente certo dell’adattamento da un romanzo, perché i personaggi e le situazioni restano sempre letterari eppure non caratterizzati a dovere, si ha sempre la sensazione che qualcosa sia rimasto fuori, che manchi un’epica del racconto. Più che una traduzione sullo schermo sembra talvolta una specie di riassunto schematico, capitolo per capitolo (ognuno dei quali, comunque, annunciato con titoli sontuosi e grande enfasi). Molta carne alla brace che non sazia completamente l’appetito. É però un bel ritratto d’epoca e l’ennesimo, ma non per questo meno interessante, racconto corale di gioventù bruciata, che prende visceralmente, con brividi di paura e veri sussulti davanti alla violenza brutale messa in scena da questi ragazzi terribili e furiosi. Il giovane cast é convincente, capace di creare un fascino romanzesco e una certa immedesimazione, complice ed empatica. La regia é elettrizzante, moderna, sincopata e possente, sostenuta da ritmi techno ed elettronici tanto cacofonici quanto perfetti nel commentare le immagini di vilipendio e corruzione morale.