BERLINO – L’unico film italiano in concorso, “Vergine giurata” dell’esordiente Laura Bispuri, riscuote un grande successo di pubblico alla prima. Tratto dall’omonimo romanzo di Elvira Dones, il film racconta la vicenda di Hana, ragazza albanese che ha deciso di diventare una “vergine giurata”, ovvero ottenere i diritti e le sembianze maschili, a patto di rinunciare per sempre a qualsiasi rapporto sessuale e alla sua femminilità. Per essere libera come donna, rinuncia a esserlo nei fatti: paradosso incredibile in una società patriarcale, tribale e maschilista come quella albanese. Hana, sotto nome di Mark, capelli corti e vestiti maschili, si presenta a casa della sorella Lila, a Milano, e qui, complice l’incontro con la nipote nuotatrice e il burbero bagnino della sua piscina, Hana matura un ritorno alla sua identità femminile e sessuale. Queste sono le premesse narrative, alla lunga un po’ sterili, di un’opera prima girata con quel tipico stile naturalistico e sciatto, con camera nervosa e febbrile, che per colpa dei fratelli Dardenne é diventata il prototipo dei film indipendenti a tema o a tesi sociale. La tesi del film é puro femminismo, col paradosso di cui sopra: una donna per essere libera come un uomo diventa a tutti gli effetti un uomo. Un compromesso che evidentemente non porta a nulla di buono. La regista indaga sugli sguardi dell’androgina e catatonica Alba Rohrwacher, che recita molto bene in albanese, ma riempie la storia di fronzoli didascalici, personaggi, parentesi, momenti spesso evitabili, vieppiù perché alla fine il minimalismo del film va a parare in una dimensione totalmente poco drammatica e coinvolgente, tutto ciò che succede accade dentro Hana e noi non possiamo vederlo né sentirlo. Il passato della donna é rivissuto, come da copione, con flashback che si vorrebbero illuminanti. Ciò che illumina, piuttosto, é forse lo sguardo, nuovo ma anche non indispensabile, sulla società albanese arretrata e maschilista, e sui suoi rituali di cui pochi sono a conoscenza: ma anche qui l’occhio, anelante al puro realismo, si fa puramente documentario ed etnografico. Quanto al tema abusato dell’identità sessuale e allo stile di regia volutamente antiestetico secondo il classico sillogismo “la realtà è brutta, il film racconta la realtà, il film è brutto”, il film non sa dire niente di nuovo e memorabile.
L’anteprima, fuori concorso, di “Cinderella”, di Kenneth Branagh, é un evento più mediatico che altro, per la presenza di un cast di grandi nomi: Cate Blanchett (la matrigna), Helena Bonham Carter (la fata madrina), Stellan Skarsgård, Richard Madden e, soprattutto, la nuova stellina di Hollywood, Lily James, bellissima Cenerentola. Prodotto dalla Disney, ricalca lo spirito del classico d’animazione del 1950, senza aggiungere nulla di nuovo. Del racconto folcloristico, di cui esistono più di 300 varianti (tra cui anche quella napoletana di Giambattista Basile), il film di Branagh prende tutto alla lettera, e lo addolcisce con la tipica melassa disneyana, senza un minimo di personalità. È la solita solfa: l’orfana Cenerentola, cuore d’oro e tanto sudore, sottomessa al potere maligno della matrigna e delle sorellastre, trova un’occasione di riscatto nel ballo indetto dal principe, al quale partecipa miracolosamente, bellissima ed elegante, grazie a un incantesimo che a mezzanotte finisce, ma il principe, innamorato, ritrovata la sua scarpetta di vetro, la rintraccia, la sposa e l’amore trionfa. Il film é anche più semplice e banale di questa frettolosa descrizione. I buoni sentimenti, gli effetti speciali, le belle scenografie (del “nostro” Dante Ferretti) costituiscono l’essenza di un film di intrattenimento per famiglie gradevole e inutile, che serve come operazione di marketing per una Disney così a corto di idee da dover ripescare nel suo patrimonio, senza stravolgerlo ma indirizzandolo a un pubblico di teenager (nel 2016 uscirà anche il live-action di “La bella e la bestia”, con Emma Watson).
Se é vero che questa fiaba ha conosciuto così tante varianti a seconda dei tempi e delle culture, sarebbe ora di aggiornarla al gusto moderno, cambiarla, rinnovarla. Nel 2011 il regista spagnolo Pablo Berger realizzò un capolavoro, “Blancanieves”, aggiornando la fiaba dei fratelli Grimm alla Siviglia degli anni ’20, con Biancaneve e i sette nani toreri, il tutto nello stile di un film muto: quello é il sentiero da seguire, postmoderno e innovativo. Le minestre riscaldate non muovono idee, ma solo denaro.
Sempre fuori concorso é il film tedesco “Elser”, che per il mercato estero avrà il titolo “13 minutes”, il quale racconta la storia vera di Georg Elser, carpentiere e musicista che nel 1939 preparò un attentato bomba a Monaco con l’intento di colpire Hitler, che però uscì dal palazzo tredici minuti prima. A morire furono otto persone innocenti. Il film ripercorre, secondo una tecnica nota, il passato e il presente del protagonista: i ricordi della gioventù spensierata, dell’interesse politico, dell’amore per Elsa, donna sposata, si ricongiungono parallelamente agli interrogatori e alle torture che l’uomo subì dai funzionari della Gestapo, paranoici e desiderosi di scoprire e smascherare un complotto collettivo mai esistito. Elser fu in vita doppiamente beffato: non solo non uccise Hitler bensì otto persone innocenti, ma scelse di farsi eliminare nel campo di concentramento di Dachau appena qualche giorno prima della sua liberazione e della fine della guerra, nel ’45.
La storia tedesca lo considera un personaggio importante della resistenza, e il film così lo dipinge, ma non si può fare a meno di pensare che sia dopotutto anche e soprattutto un assassino vero, un goffo ma non meno feroce terrorista, chissà forse anche un collaborazionista. Il regista Oliver Hirschbiegel, che aveva già firmato sul tema del nazismo il controverso “La caduta – Gli ultimi giorni di Hitler”, criticato per aver umanizzato un mostro e giustificato un popolo a suo dire “inconsapevole”, non perde la sua ambiguità ideologica, nascosta sotto la patina da fiction e dalla cronaca di storia vera. Il finale é già conosciuto, ma il regista neanche riesce a infondere un po’ di tensione al racconto: l’episodio dell’attentato, che sappiamo già essere fallimentare per ovvi motivi, non ha suspense e si presenta subito. Il resto non é che tortura, interrogatorio, flashback del passato, un percorso a ritroso per trovare e conoscere l’uomo. Interessante e didattico, il film informa ma non emoziona. Come ne “La caduta”, il regista, piuttosto freddo e retorico, riesce tuttavia a dare il meglio di sé nella realistica rappresentazione della violenza e della morte, con la potente scena dell’impiccagione del capo della polizia Arthur Nebe che ricorda per impatto quella di Goebbels e famiglia nell’altro film: qui, come lì, la morte é l’unico momento di cinema vero in mezzo a tanto documentario recitato.