Chiusa l’ambasciata a Tripoli. Niente mezze misure o passi incerti, dunque, ma sospensione delle attività dell’ambasciata italiana sul territorio libico con rimpatrio del personale via mare, a bordo di un mercantile maltese. Il motivo è ovviamente da individuarsi nel peggioramento della situazione legata all’agire dell’Isis e in generale del terrorismo islamista, che ha provocato il venir meno delle condizioni di sicurezza anche per i diplomatici. I precedenti non sono rassicuranti, e l’autobomba che soltanto lo scorso 3 dicembre ha colpito la residenza dell’ambasciatore iraniano nello Yemen non può essere già dimenticata. Dopo Derna, divenuta capitale del califfato islamico libico, i jihadisti hanno occupato Sirte, istituendo il loro quartier generale a cinquecento chilometri a est della capitale.
La notizia della chiusura della sede diplomatica italiana è stata ufficializzata dalla Farnesina. Gli italiani a bordo del catamarano “San Gwann” sarebbero sessanta, pronti a fare scalo a Malta per poi sbarcare in Sicilia. Altri loro connazionali, probabilmente circa un centinaio, avrebbero invece deciso di non lasciare la Libia nonostante il degenerare della violenza fondamentalista e i ripetuti inviti a tornare in Italia (rivolti a chiunque si trovi in Libia, per lavoro o per altra attività, soprattutto dopo il recente attentato terroristico all’Hotel Corinthia). Intanto il Governo italiano, nelle parole del Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, si è impegnato a discutere, dal prossimo 19 febbraio, nuove linee di intervento per una maggiore assunzione di responsabilità vista la straordinarietà degli eventi, sottolineando che l’Italia è pronta ad agire e a “fare la sua parte in Libia, nel quadro delle decisioni dell’ONU”.
I miliziani dell’Isis controllano buona parte degli obiettivi strategici del territorio libico e stanno avanzando verso ovest, alla ricerca di occidentali da sequestrare in quella che è stata etichettata come “la nuova Somalia”: organizzazioni intergovernative come l’ONU o l’UE non possono e non vogliono restare a guardare, e le loro disposizioni coinvolgono i diversi Stati nazionali che non possono dondolarsi nell’ignavia e limitarsi a “sperare” in una risoluzione. Tra questi l’Italia, che per il carattere internazionalista della sua carta costituzionale si dichiara pronta a offrire il suo contributo per aiutare organismi di cooperazione al perseguimento della pace.