Sono passati poco più di quattro anni dallo scoppio della cosiddetta Primavera Araba, la stagione rivoluzionaria scatenatasi nel mondo arabo alla fine del 2010. Oggi continua a sopravvivere sotto forma di guerra civile in alcuni territori come quello libico e quello siriano, contesi dai legittimi governi e da numerosi gruppi armati nati o rinforzati grazie al caos generatosi durante le rivoluzioni.
Il raccolto di questa “stagione” ha dato frutti molto diversi a seconda dei paesi: se in Tunisia il popolo è riuscito a porre fine alla lunga dittatura di Ben-Ali e ad ottenere libere elezioni , in Yemen i ribelli Houti hanno rovesciato il governo del presidente Hadi e nel sud del paese infuria una guerra tra i ribelli e l’organizzazione jihadista Ansar Al-Sharia per il controllo del territorio.
In definitiva, la serie di manifestazioni e proteste, pacifiche e non, che hanno caratterizzato la Primavera, hanno deluso le aspettative di chi, tra i protagonisti locali e gli occidentali, auspicava una rivoluzione radicale del mondo arabo, caratterizzato fino a quel momento principalmente da dittature autarchiche, limitate libertà politiche e civili, alti livelli di corruzione, clientelismo, disuguaglianza economica e presenza pervasiva delle istituzioni religiose nella vita politica.
Le migliaia di giovani che hanno inondato le strade e le piazze egiziane per chiedere maggior democrazia, più occupazione, meno corruzione e più trasparenza, si sono trovati a fronteggiare nuovi governanti altrettanto irrispettosi dei diritti umani e altrettanto spregiudicati e brutali nei confronti degli oppositori politici: il mese scorso un’attivsta egiziana del partito Alleanza Popolare Socialista è stata uccisa durante una manifestazione vicino Piazza Tahrir; l’autopsia ha rivelato che la donna è morta a causa di colpi di arma da fuoco sparati da circa otto metri di distanza.
In Siria sta continuando ad imperversare la guerra civile tra l’Esercito Siriano Libero e le forze governative, contrastate anche dal Fronte Al-Nusra, gruppo fondamentalista alleato di Al-Qaeda. Fino ad ora gli scontri hanno causato più di duecentomila morti e milioni di sfollati, i quali sono costretti a scegliere tra la sopravvivenza nei campi per rifugiati oppure l’emigrazione, soprattutto verso l’Europa.
La reazione dell’Italia si è fatta subito sentire: il Ministro degli Esteri Gentiloni ha affermato che il paese è pronto ad intervenire e a guidare una coalizione internazionale solo se sotto l’egida delle Nazioni Unite e in seguito all’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza. Intanto l’ambasciata italiana in Libia è stata temporaneamente chiusa e i suoi funzionari fatti rimpatriare.
Dalla Francia, il presidente François Hollande invita il Consiglio di Sicurezza dell’Onu a riunirsi “con urgenza” per riflettere sulla situazione in Libia e adottare nuove misure. Per Matteo Renzi, però, “questo non è il tempo dell’intervento miliare”.