Doveva essere, secondo molti, la notte di Richard Linklater e del suo capolavoro “Boyhood”, una notte di stelle e premi dorati che già i Golden Globe e la nomea crescente del film avevano annunciato. Ma gli Oscar si sa, sono spettacolo e colpo di scena, e a spuntarla contro tutto e tutti è “Birdman”, il virtuoso e ambizioso film di Alejandro González Iñàrritu che porta a casa ben quattro statuette: miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura originale, miglior fotografia (Emmanuel Lubezki). Girato in un unico piano-sequenza, è un film che parla di attori, spettacolo e star system: l’Acedemy da che mondo è mondo ama questi temi. È la definitiva ribalta di questo gigante messicano, che dopo il grande esordio nazionale (il meraviglioso “Amores Perros”, del 2000) ha esportato negli Stati Uniti le sue tematiche fataliste e le sue storie corali (“21 grammi”, “Babel”), per poi cambiare di nuovo: “Biutiful”, girato in Spagna con Javier Bardem, il film nuovo e della maturità, e ora “Birdman”, il film del trionfo. È il secondo regista messicano di seguito a vincere il premio per la regia, dopo Alfonso Cuaròn, trionfatore per “Gravity” l’anno scorso, così come il compatriota Emmanuel Lubezki, anche in quel caso maestro della camera mobile e del piano-sequenza. Resta la delusione per “Boyhood”, il film-evento che segue per dodici anni la vita dei suoi personaggi/attori, esperimento più unico che raro nella storia del cinema, commovente e intenso come pochi altri film: si deve accontentare della, peraltro meritatissima, statuetta per la miglior attrice non protagonista, Patricia Arquette.
Già, gli attori. Alla quarta nomination, Julianne Moore ce la fa e porta a casa l’Oscar per la sua interpretazione da protagonista in “Still Alice”, film dal tema importante: il morbo di Alzheimer. Annata speciale per la grande attrice, già premiata a Cannes per la sua performance sboccata ed estrema in “Maps To The Stars” di David Cronenberg. Inappellabili quanto prevedibili le vittorie degli attori maschili: l’eccezionale Eddie Redmayne vince e convince con la sua dolorosa e perfetta interpretazione di Stephen Hawking in “La teoria del tutto”, così come J. K. Simmons, superbo caratterista, merita il suo Oscar da non protagonista per il ruolo di ruvido insegnante di musica nel sorprendente “Whiplash”. Il film di Damien Chazelle è il vero exploit di questa nottata, la dimostrazione di quanto lontano possa andare il cinema indipendente: dal Sundance a Cannes, passando per i Golden Globe, questo gioiellino contemporaneo, tutto ritmo, sangue e musica, porta a casa anche le statuette per il montaggio (Tom Cross) e il mixaggio sonoro, pura tecnica, esplosiva.
Se la miglior sceneggiatura originale è quella di “Birdman”, per quella basata su materiale già esistente l’Oscar va a Graham Moore per “Imitation Game”, adattamento della biografia di Alan Turing scritta da Andrew Hodges. “Grand Budapest Hotel”, del celebrato regista pop Wes Anderson, agguanta ben quattro Oscar: costumi (la nostra, bravissima Milena Canonero), musica (Alexandre Desplat, finalmente premiato), scenografia e trucco. Gli aspetti del resto meritevoli di un film di puro stile e niente più.
Per il miglior film straniero il polacco “Ida”, di Pawel Pawlikowski, girato in un bianconero d’antan, scalza un valido pretendente come l’argentino “Storie pazzesche”: il trionfo del manierismo, il film “alla europea” che tanto piace oltreoceano. Per l’animazione, ennesimo trionfo della Disney, con “Big Hero 6”.
Tra gli altri premi: la miglior canzone originale è “Glory” nella colonna sonora di “Selma”, il miglior montaggio sonoro è per “American Sniper”, i miglior effetti speciali vanno a “Interstellar”. Sezione documentari, vincono il lungometraggio “Citizenfour” di Laura Poitras e il corto “Chrisis Hotline – Veterans Press 1” di Ellen Goosenberg Kent; per i cortometraggi invece, il miglior film d’animazione è “Winston” di Patrick Osborne, mentre nel live-action il premio è assegnato a “The Phone Call” di Mat Kirkby.
Come sempre, in una notte di stelle e premi, non mancherà il guizzo di polemica per commentare, laddove la ragione può arrivare, l’assurda assenza di “Gone Girl”, nominato solo per la miglior attrice Rosamund Pike, e che era senz’altro uno dei film dell’anno, nonché uno dei migliori di David Fincher, regista che non merita questo snobismo. Non stupisce in quest’ottica che tra i dieci film da candidare, ne abbiano alla fine scelti solo otto, e chi pensa che avrebbero potuto trovarvi un piccolo spazio anche l’ultimo film di Tim Burton (“Big Eyes”) o uno dei cult dell’anno come “Nightcrawler”, non ha ancora capito che le teste dei membri dell’Academy sono più dure dell’oro delle statuette.