TRAMA: Vent’anni dopo aver interpretato al cinema l’ennesimo supereroe (Birdman), Riggan Thompson (Michael Keaton), ormai in declino, cerca di riconquistare la fama e la credibilità persa nel corso degli anni mettendo in scena e interpretando un’ambiziosa pièce a Broadway, riadattamento personale di un racconto di Raymond Carver. Nelle ore febbrili e concitate che precedono la prima dello spettacolo, che può decretare la sua imprevedibile rinascita o il definitivo tracollo, Riggan si confronta con le persone che lo circondano: l’attore indisciplinato Mike (Edward Norton), l’attrice insicura Lesley (Naomi Watts), il fedele amico Jake (Zach Galifianakis), la figlia ex tossica Sam (Emma Stone), l’ex moglie Sylvia (Amy Ryan) e, soprattutto, il fantasma interiore del suo alter ego Birdman che lo segue come un’ombra e gli parla in continuazione.
GIUDIZIO: Quinto film di Alejandro González Iñárritu, il più diverso, ambizioso, folle, quello della definitiva consacrazione su tutti i livelli, incredibilmente ignorato al festival di Venezia, premiato da una pioggia di Oscar nell’anno di “Boyhood”, vertice massimo di un talento purissimo e di un virtuosismo della messinscena maturo e superbo. Costruito su un unico, lungo, vorticoso piano-sequenza, che ci porta dritti sul palcoscenico, nella pelle e nell’anima dei personaggi, senza mollarli mai, senza mai allentare la tensione della vita e dello spettacolo, è una scommessa impossibile e felicemente vinta, che coniuga gli sforzi del più grande direttore della fotografia contemporaneo (Emmanuel Lubezki, già occhio di Terrence Malick e di Alfonso Cuaròn) e di un team di quattro sceneggiatori, tra cui Iñárritu, uniti per far coincidere l’unità di spazio e di tempo, proprio come a teatro. Il divorzio artistico con lo sceneggiatore Guillermo Arriaga, autore della sua trilogia fatalista (“Amores Perros”, “21 grammi”, “Babel”), aveva già giovato al regista messicano, che con nuovi collaboratori ha iniziato a dare una netta svolta a una filmografia che pur se notevole rischiava di diventare ripetitiva: “Birdman” coniuga quindi la struttura corale e il crescendo drammatico dei primi film, con l’introspezione psicologica e il realismo del precedente, splendido “Biutiful”, e fa centro. Il virtuosismo stilistico serve a raccontare una storia altrimenti normale, già vista: come per il montaggio sbrindellato di “21 grammi”, l’unico piano-sequenza di “Birdman” giustifica gli intenti e rende grande, immenso, un contenuto che poteva essere già visto e sentito. Infatti, quanto a meta-arte, ritroviamo gli influssi di Fellini (come in “8 ½” c’è un artista stressato dagli altri e in fuga da se stesso), ovviamente di Cassavetes (il teatro metafora della vita e dei suoi conflitti, si pensi a “La sera della prima”), e, andando ai giorni nostri, di Aronofsky (il palcoscenico tra ambizione e incubo de “Il cigno nero”); e quanto alle luci della ribalta e al viale del tramonto, la lista sarebbe ancora più lunga. Persino l’idea di fare un film tutto in un solo piano-sequenza non è nuova (tra gli esempi illustri, “Nodo alla gola” di Hitchcock, addirittura del 1948, e “L’arca russa” di Sokurov). Che cos’ha dunque “Birdman” di nuovo ed elettrizzante? Proprio questo: essere una rielaborazione del cinema e delle sue infinite possibilità. Il risultato non è solo un ineccepibile esercizio di stile, coadiuvato da trucchi di montaggio ed effetti speciali comunque elevati, non solo questo fortunatamente, perché c’è l’intento, proprio di questo autore, di far sentire, far vivere, trasportare, più ancora che mostrare e raccontare. La camera si muove ma soprattutto muove, portando lo spettatore a una dimensione altra da quella del voyeur: diventa complice, attore, parte del quadro. Si è letteralmente trascinati, piano, di corsa, finanche in volo (in una sequenza che resta tra le più belle viste negli ultimi anni), nel mondo di questo eroe comune, frustrato e ambizioso, infelice e tormentato, ossessionato dall’idea del successo, rappresentato dall’alter ego che ha interpretato, alias il personaggio che è diventato. Il regista segue tutte le piste che portano a lui, i personaggi che lo circondano, le vicende parallele che ne formano il tessuto e che decideranno la sua ribalta o la sua caduta: tutto nello spazio di un teatro e dei suoi dintorni, epicentro drammatico in cui si compie quest’atto unico e irripetibile: la vita. Un atto cinematografico che parla del successo, del mito tutto americano della celebrità, dello star system hollywoodiano, degli attori – bestie implacabili o fragili –, dell’identità. Inoltre, in modo non tanto velato, offre finalmente una critica al cinema mainstream e spazzatura, e persino, in controparte, una critica alla critica, alle etichette, indagando i fenomeni extra-artistici del successo nelle sue degenerazioni: l’intellettualismo gracile e snob dei critici, l’adulazione di un pubblico/gregge istupidito e mosso dalle onde della moda. Michael Keaton è assoluto, in un’interpretazione personalissima e non priva di beffarda auto-ironia (lui stesso, dopo aver interpretato il Batman di Tim Burton, è stato gradualmente dimenticato fino a scomparire ai margini dell’industria), ma gli fanno testa – eccome! – un manipolo di animali da recitazione eccezionali, in una gara di bravura senza vincitori né vinti. Un ritmo insistente di percussioni (Antonio Sanchez) scandisce tutto il film, che pure spesso si apre a momenti di improvviso, inaspettato lirismo con brani selezionati di Tchaikovsky, Ravel, Mahler e Rachmaninov.
“Birdman” è un film insolito, inedito, un’esperienza visiva che sembra dirci: la vita è un piano-sequenza. Di più, da qualsiasi occhio lo si guardi, “Birdman” è un capolavoro.
VOTO: 5/5
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