di Marco Chiappetta
TRAMA: Margherita (Margherita Buy), regista nevrotica e insoddisfatta, vive una profonda crisi esistenziale, tanto sul piano lavorativo, con le difficili riprese del nuovo film e gli scontri con l’inaffidabile attore americano Barry Huggins (John Turturro), quanto sul piano affettivo, con la progressiva rassegnazione alla morte prossima della madre Ada (Giulia Lazzarini), anziana e malata, che cerca di curare a tutti i costi con il fratello Giovanni (Nanni Moretti).
GIUDIZIO: Come in “Caro diario” e “Aprile”, Nanni Moretti si racconta, trasmutandosi stavolta in un alter ego femminile e ritagliandosi da attore un ruolo secondario, concentrandosi sui temi della malattia senile e della morte, sull’ispirazione di “Amour” di Michael Haneke (che lui premiò da presidente della giuria a Cannes 2012) e sull’onda dell’emozione della recente scomparsa della madre, più volte presente nel suo cinema, in carne e ossa oppure rappresentata (chi può dimenticare la scena sul letto di morte di “La messa è finita”?). Sentito, personale, con qualche momento ovviamente emozionante, il nuovo film del regista romano tocca corde e argomenti profondi, ma alla fine dei conti non riesce a costruire un solido tessuto narrativo ed emotivo, nel suo confondersi in parte riuscito di piste e registri, commedia e dramma, metafilm e film sociale, ricordi e sogni, finzione e realtà. Sostenuto certo da una grande interpretazione di Margherita Buy, a suo agio in un ruolo cucito su misura, e dalle solenni musiche di Arvo Part, il film ha il suo limite forse proprio nel suo aspetto troppo intimista, troppo personale, troppo biografico che pur se vicino alla realtà dell’autore non sa farsi universale, nuovo, necessario. Se già ne “Il caimano” cinema e vita si fondevano, creando un’unica storia e raccontando una sola crisi (politica, professionale, personale, familiare), qui l’itinerario della protagonista è in qualche modo già visto e sentito, e anche lo sguardo caustico, energico e disperato a un tempo, del regista è meno forte, troppo condizionato dal privato per diventare oggettivo. Se “La stanza del figlio” affrontava con struggente distacco il dolore puro, l’assenza e l’elaborazione del lutto, del peggiore dei lutti, “Mia madre” è indulgente, pedante e quasi patologico nella descrizione dell’attesa di una morte certa, una morte ovvia e naturale, quando più freddezza, più distanza e meno personalità (difficile certo, chiederlo a un autore) avrebbero aiutato il film a brillare e a colpire nel segno. La regista Margherita, nel film, chiede agli attori di essere personaggio e attore allo stesso tempo. È quel che Nanni Moretti prova a fare, a essere autore e personaggio insieme, stando dentro e fuori dal film contemporaneamente, ma alla fine noi vediamo soltanto lui stesso.
VOTO: 3/5