Ci troviamo nel luogo che può considerarsi il cuore pulsante del centro storico di Napoli, Piazza San Gaetano. Qui il decumano maggiore si interseca con la via di San Gregorio Armeno dei maestri del presepe; qui i sostrati greco-romani, medievali, rinascimentali per arrivare ai giorni nostri si sono integrati a vicenda, creando un connubio con pochi rivali nel resto d’Europa e forse del mondo;
ed è qui infine che la storia incomincia, a partire da un dettaglio che a molti sfugge. Esso è evidenziato nell’immagine, nella zona illuminata dal sole, all’angolo del complesso di San Lorenzo Maggiore: (immagine del dettaglio della facciata)
Sette stemmi, ognuno simboleggiante un Sedile. I Sedili di Napoli sono stati gli organi attraverso cui la città è stata governata sin dall’età greco-romana, acquisendo la sua forma più definita sotto gli angioni, sopravvivendo appena dopo la Rivoluzione Napoletana, sotto Gioacchino Murat. Riflettendo la divisione di una città così come delimitata dalle sue mura, quindi da Forcella fino al Castel dell’Ovo, essi erano il simbolo soprattutto dal potere e della ricchezza della variegata nobiltà che nel corso della storia di Napoli vi ha abitato. Infatti, nella stessa maniera in cui nella Roma monarchica il comizio centuriato veniva formato, ben sei Sedili su sette erano appannaggio esclusivo della nobiltà, con il resto del popolo raccolto nel seggio simboleggiato appunto da una P, a cui comunque non spettavano funzioni determinanti nel governo della città, a parte le feste popolari.
Il seggio della Montagna, rappresentato da tre monti; di Forcella, rappresentato da una Y, accorpato al primo nel 1684; di Nilo, rappresentato da un cavallo rampante; di Porto, con il monopolio dei sostanziosi proventi delle dogane portuali, simboleggiato da Colapesce; di Portanova, detto così perché situato appena fuori il nucleo greco della città. Quello che interessa nel nostro racconto è il sedile di Capuana, simboleggiato dal cavallo frenato nell’angolo in alto a sinistra, e più specificatamente la famiglia Capece.
Il racconto parte da un lettera che l’umanista siciliano Aurispa da Bologna scrive al suo amico Niccolò d’Ancona a Ferrara, per raccontargli d’un evento che tanto clamore fece al tempo in cui essa fu scritta, il 1425. Una storia di amore proibito, baci tremanti e spade sguainate, con precedenti eccellenti nelle storie tragiche di Paolo e Francesca e Tristano e Isotta, che si svolge adesso a Napoli, chiamata la “più amena tra tutte le città d’Italia”.
Lui è un veneziano, Alvise Dandolo, nobile e beneficiario di una ricchissima eredità, stabilitosi a Napoli per viverci sontuosamente e per esercitare il commercio non appena ebbe compiuto ventuno anni. Lei invece è figlia di Marino Capece, tra i più noti esponenti del Sedile di Capuana, di nome Caterina, soprannominata Tirinella, data in sposa quando aveva quindici anni al cinquantenne Pietro, nel sesto anno di matrimonio quando il giovane arriva in città.
Tra i due giovani coetanei, descritti entrambi come di bellissimo aspetto e di animo grande, scoppia subito un’intensa attrazione, che poi divenne amore e poi passione ardente che non può essere rivelata, né espressa in un incontro diretto. Gli indugi vengono rotti dall’intervento di una anziana serva, consapevole delle cose del mondo, astuta e avida di denaro, che fa in modo che i due giovani si scambino le reciproche dichiarazioni d’amore e organizzino i propri incontri, resi più frequenti dagli affari regi fuori città del marito di lei Pietro.
La relazione dura tre anni, irta di pericoli e difficoltà, con il sospetto sempre crescente che aleggia, le dicerie che aumentano, senza che la passione possa scemare negli animi dei due, fino a una notte d’inverno. Tutti i quattro i figliastri si ritrovano nella casa paterna, dove hanno l’abitudine di passare le sere invernali vicino al fuoco della grande sala d’inverno, per cui si deve necessariamente passare per arrivare alla camera in cui Tirinella dorme di solito. Quella sera essi quindi stanno assieme alla matrigna, davanti al fuoco, a leggere favole che hanno per protagonisti figure come Tristano e Lancillotto. I programmi con Alvise rimangono, e a questo fine la serva a conoscenza dell’intrigo fa segnale che egli era è semplicemente facendo notare la sua presenza. A questo punto Caterina non può che far fissare gli occhi dei figliastri sul libro che stanno leggendo, per permettere al giovane di attraversare la sala senza essere visto da loro, ma senza successo: il più piccolo tra i fratelli scorge con la coda dell’occhio l’ombra di uomo dileguarsi lungo la sala. Con la certezza che il suo amante è al sicuro nel suo letto, la giovane ha all’improvviso un forte mal di testa, così forte da dover letteralmente correre nella sua camera. Non appena il minore racconta ai fratelli ciò che aveva visto, essi immediatamente trovano la conferma delle dicerie che più volte avevano sentito riguardo alla matrigna. Eccitati dalla notizia, convocano tutti i famigliari perché circondino la casa, si armano e bussano alla porta della stanza in cui Tirinella e Alvise si stanno già da fare. La donna risponde spazientita che è a letto a riposarsi dal mal di testa – i figliastri ordinano di portare una scure per abbattere la porta. Alvise si è già rivestito, corazzato e armato, e Tirinella lo esorta a fuggire, a combattere per avere salva la propria vita, ma in ciò vengono interrotti dall’irruzione dei figliastri con la spada alla mano. Prima vengono affrontati dalla donna che tenta di mantenere il silenzio per evitare la rovina con una grossa somma di denaro – ma ella viene trafitta nel ventre. Il giovane combatte con valore, ma è presto sopraffatto e ucciso.
I corpi dei due miseri amanti vengono abbandonati sulla strada in mezzo al fango.