di Marco Chiappetta
CANNES – Sotto il sole cocente di una giornata già estiva per clima e umori, si srotola il tappeto rosso, presto calpestato da migliaia di piedi, immortalato da centinaia di flash, selfie (pur vietati dal “codice” del festival), occhi della memoria. Al via la sessantottesima edizione del festival più prestigioso del mondo, fucina di talenti e showcase dei migliori autori contemporanei. Svetta meraviglioso sulla facciata del Palais des Festivals il volto di Ingrid Bergman, scelto per rappresentare lo spirito di questi dieci giorni di cinema ed emozioni. Brillante e simpatico, il maître della serata Lambert Wilson introduce un omaggio ai presidenti della giuria, i fratelli Coen (che Cannes battezzò, svezzò, premiò), che insieme a una equipe internazionale (Jake Gyllenhaal, Sienna Miller, Guillermo del Toro, Rossy de Palma, Sophie Marceau, Xavier Dolan, la cantante malese Rokia Traoré) pronuncerà il suo verdetto il 23 maggio sera. Madrina della cerimonia Julianne Moore, venuta a ritirare il premio ricevuto lo scorso anno per la sua interpretazione out of limits in “Maps To The Stars”.
Dopo l’alquanto deludente edizione passata, il programma di quest’anno promette scintille, con tre autori italiani in competizione (i soliti noti: Nanni Moretti, Matteo Garrone e, ovviamente, Paolo Sorrentino), giganti come Jacques Audiard e Denis Villeneuve (“Prisoners”), voci asiatiche di alto livello (Hirokazu Koreeda, Jia Zhangke), ed esclusive proiezioni fuori concorso come “Mad Max: Fury Road”, l’annunciato blockbuster dell’anno, e l’ultimo Woody Allen, “Irrational Man”, con Joaquin Phoenix ed Emma Stone. In mezzo anche e soprattutto tanto cinema francese, di qualità.
Il cast de “La tête haute” con Emmanuelle Bercot
Come il film d’apertura, “
La tête haute”, di Emmanuelle Bercot, fuori concorso, che ha meritato una pioggia di applausi, un’autentica standing ovation come é raro vederne. Merito di un cast superbo, con la diva Catherine Deneuve (cui la terza età, florida e splendida, ha dato nuovi ruoli) e il già noto Benoît Magimel (qui premiato nel 2001 per “La pianista”), e soprattutto una rivelazione, il giovanissimo, esordiente Rod Paradot, che interpreta o meglio vive, in un intenso tour de force, il ribelle e turbolento Malony, ragazzaccio incontrollabile della periferia francese, che le autorità, rappresentate da una giudice comprensiva e un assistente sociale audace, cercano di recuperare a tutti i costi, colmando i vuoti e i danni creati da un ambiente sfavorevole e dalla mala educazione di una madre sbandata ed assente. Commuove, assai più del film, il pianto liberatorio e mal trattenuto di questo enfant prodige a fine proiezione, quando applausi forse non sperati, forse troppi, lo assalgono: le telecamere lo indagano, lo schermo lo ripresenta nuovo e pulito, in smoking, lui che era prima così sporco e cattivo, e si capisce solo in parte quanto lavoro, quanta emozione, quanto talento lo abbiano trasformato, reinventato: il potere del cinema. Capace, in maniera sorprendente, di trainare un film intero con il solo sguardo, e animato da una rabbia e un furore talmente veri da spaventare, questo piccolo grande attore farà parlare di sé in futuro. Per ora basta a sublimare un film di spessore, socialmente impegnato, diretto con stile naturalistico come un documentario o uno studio sociale, che per temi e atmosfere (la gioventù bruciata, famiglie disfunzionali, periferie bastarde) ricorda in meglio i radicalissimi fratelli Dardenne (vedi “Il figlio”) e il pompato e pomposo “Mommy” di Xavier Dolan, premiato proprio lo scorso anno con il Premio della Giuria. Non c’era, forse, maniera diversa di dirigerlo che con naturalezza, seppur se qui spesso tendente alla paternale e alla pedagogia, al messaggio retorico e scontato di una giustizia giusta e possibile, a un invito alla tolleranza e al quieto vivere che oggi il mondo, e specie la Francia, chiede a gran voce. Ma la bravura della regista, del resto più famosa come attrice, é nella direzione degli interpreti, sanguigni e veraci, e per una volta più che la perizia tecnica in un film si nota il cuore. Scelta giusta e controcorrente quella degli organizzatori di aprire la rassegna con un film di una donna (secondo caso in sessantotto anni) e di tale portata sociale, abbandonando le frivolezze mediatiche degli ultimi anni (“Moonrise Kingdom”, “Il grande Gatsby”, “Grace di Monaco”), utili piuttosto come contorni e aperitivi di ciò che a Cannes sembra importare di più: le feste. Poco male se il pubblico aveva in parte già lasciato la sala dopo la cerimonia d’apertura, perché chi é rimasto ha apprezzato. E qualcuno ve lo ha raccontato.