CANNES – Atteso sulla Croisette, dove già fu premiato per “Gomorra” e “Reality” (entrambi Grand prix), il regista di punta del cinema italiano, Matteo Garrone, presenta il suo ultimo film, “Il racconto dei racconti“, il primo in lingua inglese e il primo di ambientazione non contemporanea. Abbandonate le periferie e i rioni della Napoli di oggi, Garrone trova comunque ispirazione nel patrimonio letterario della città, il celebre “Lo cunto de li cunti” di Giambattista Basile, capolavoro del XVII secolo, interamente scritto in napoletano, che tanto aveva ispirato anche, ai limiti del plagio, i fratelli Grimm e Perrault, superiori per fama e non per talento. Garrone sceglie per questi racconti d’altri tempi delle ambientazioni perfette e suggestive, ritrovate nei luoghi più arcaici della Puglia, della Sicilia, del Lazio e della Toscana, creando una geografia immaginifica di sicuro impatto visivo, grazie anche alla bella fotografia di Peter Suschitsky, che sostituisce il suo compianto collaboratore Marco Onorato. I toni scuri, le maschere grottesche, la regia virtuosa sono ancora tra i suoi tratti personali, così come la musica magica di Alexandre Desplat, già autore delle note di “Reality”; eppure, confrontandosi con mezzi, attori, costi, effetti speciali da cinema mainstream il rischio di perdersi era grande. Il film é infatti comunque labirintico, intrecciato come é tra tre racconti: la regina di Selvascura (Salma Hayek), che per restare incinta deve mangiare il cuore di un mostro sottomarino, e poi impedirà al figlio adolescente e albino di frequentare un suo coetaneo e sosia; il re di Altomonte (Toby Jones) che alleva una pulce fino a farla diventare gigante e impone alla figlia Violette (Bebe Cave) un orco (Guillaume Delaunay) per marito; il libertino re di Roccaforte (Vincent Cassel) che si lascia intrigare dalla voce di una donna, poi del suo dito, prima di scoprire con ribrezzo che si tratta di un’orribile vecchia, pronta però a trasformarsi in una bellissima giovane al momento opportuno e sposarlo. É il regno del fantastico, del misterioso, del grottesco, del mostruoso. Garrone é bravo a creare un tessuto narrativo coerente, intrigante, ironico, senza cadere nel banale o nel trash gratuito. Resta comunque un film particolare, diverso, lontano dai suoi capolavori e non certo per tutti gli appetiti. Qualche sbavatura negli effetti speciali, l’artificiosità del digitale e certe digressioni narrative impoveriscono il film, ma non ne impediscono la gradevole visione.
Quanto all’altro film in selezione presentato oggi, parliamo di una delusione. Il regista giapponese Hirokazu Koreeda, che due anni fa deliziò la platea e la giuria col meraviglioso “Like Father, Like Son”, non riesce minimamente a raggiungere un’emozione simile con il nuovo “Our Little Sister”. Tre sorelle – Sachi, Yoshino e Chika – dopo la morte del padre, che le aveva abbandonate una quindicina d’anni prima, adottano la sua figlia avuta da un secondo matrimonio, Suzu, tredicenne piena di vita che si integra subito nel regime familiare, cementando un’unione solidale, amorevole, tutta femminile. Più di questo esile straccio narrativo non c’è nulla, e nonostante la delicatezza dei toni, la bellezza di certe singole scene, l’armonia delle inquadrature, il miracolo non riesce: il film è piatto, dispersivo, aneddotico, senza meta, ripetitivo e francamente noioso. Un peccato che un regista con un potenziale espressivo ed emotivo così forte non abbia saputo offrire una storia all’altezza del suo talento.