CANNES – Capita spesso che le sezioni e le selezioni dei festival siano beffarde e discutibili. Cannes, dal canto suo, ha certo il suo interesse a promuovere il cinema nazionale (ben sei film francesi solo nella competizione ufficiale), come Berlino e Venezia del resto: un campanilismo giustificabile che di per sé non fa una piega. Purtroppo per ora, in attesa del film del maestro Jacques Audiard e dopo la convincente apertura col film di Emmanuelle Bercot, il cinema francese ha offerto poco. I film di Stéphane Brizé (“La loi du marché“) e Valérie Donzelli (“Marguerite et Julien“), visti in anteprima, sono forse eccessivi per una competizione ufficiale e internazionale: si capisce che è una vetrina soprattutto per il cinema francese, ma qui ne va della credibilità dei criteri. Per carità, “La loi du marché” é un onesto film sociale, uno dei tanti, niente più niente meno. Racconta, in sketch e ripetizioni girate in stile realistico da cinema vérité, i tragicomici e kafkiani sforzi del cinquantenne eterno disoccupato Thierry (un bravo Vincent Lindon) per trovare un lavoro in tempi di crisi, per mantenere moglie e figlio ritardato: quando finalmente è assunto come addetto alla sicurezza in un supermercato, scopre che la crisi è universale, umana ed economica a un tempo, e colpisce tutti come un’invisibile epidemia. Tema e stile non nuovi, uno sviluppo narrativo inesistente e la superficialità di un’analisi quasi scontata e priva di nerbo, penalizzano un film tuttalpiù passabile, che non colpisce per inventiva, originalità e nemmeno per profondità. Per quanto riguarda invece il film della Donzelli, parlare di disastro sarebbe forse cattivo, ma la vicenda dei protagonisti, Marguerite e Julien, fratelli incestuosi nella Francia benpensante del ‘600 (che però non impedisce l’innesto di anacronismi come elicotteri, auto, eccetera) costretti alla fuga e destinati a una morte romantica, già di per sé poco interessante, é mal raccontata, mal scritta, girata come una soap opera, con luci, colori, costumi, scenografie, attori e volti fasulli. Tira aria di manierismo in questo stereotipato romanzo rosa macchiato dalla colpa di un peccato indicibile, pur se esorcizzato con la scusa di una favola per bambini (tipico libertinismo francese, provocatorio e anticonformista): l’amore libero e compromesso lo hanno già raccontato in tanti, e la regista, più che scimmiottare Truffaut e pretendere a una letterarietá di seconda mano, non sa fare, e il film è penoso da vedere e seguire. Un prodotto di scarsa qualità.
Piuttosto, avrebbe meritato di più il cinema latinoamericano, confinato alle sezioni alternative del festival, come Un certain regard. Brilla il terzo film del trentatreenne messicano David Pablos, “Las elegidas“, racconto feroce, violento, secco e durissimo della prostituzione minorile e della criminalità locale, a partire da un ordine tribale familiare in cui il giovane Ulises é costretto da padre e fratello a sedurre belle minorenni, per poi rapirle e confinarle in un bordello. Quando il ragazzo si affeziona all’ultima prigioniera, l’innocente quattordicenne Sofia, cerca di liberarla e salvarla dal triste destino, ma per farlo, come in una favola nera, c’è una prova difficile da superare: portare al suo posto una nuova vittima sacrificale. Nel frattempo però Sofia, non più bambina innamorata ma lussuriosa meretrice, spera in una possibilità autonoma di fuga. Le elette del titolo sono piccole donne senza più innocenza, libertà e verginità, rubate al mondo e alle famiglie, destinate a una vita da prigioniere del male, dei soldi e del vizio: solo le salva, e per poco, la solidarietà femminile tra camerate unite dal dolore dell’umiliazione. La regia plastica, pulita e meticolosa, fatta soprattutto di primissimi piani intensi e inquadrature pittoriche, confeziona magistralmente un insostenibile e durissimo spaccato sociale, disperato, nichilista, totalmente privo di retorica e moralismo, coraggioso e maturo, a tratti sublimato per contrasto da una musica sublime per organo e violini (Carlo Ayhllón). Pablos mostra senza mostrare, rivelando il potere di suggestione del cinema, lasciando tutto fuori campo, implicito, immaginabile, ciò che rende il contenuto ancora più forte e sconvolgente. Per esempio, l’idea di mostrare il sesso con un montaggio alternato del primo piano di Sofia, truccata e vestita come una battona, e una serie di mezzibusti maschili degli squallidi clienti, commentato da un sottofondo sonoro dei rumori e sospiri e suoni di orribili amplessi in continuo crescendo fino a un orgasmo di decadenza, è nuova, geniale, unica: colpisce, emoziona e arriva al punto. Il film di Pablos è un piccolo capolavoro, portavoce di un cinema di grande senso morale, acume intellettuale, critica sociale, e soprattutto pura estetica cinematografica. Film di cuore, cervello e stomaco, colpisce tutti e tre questi organi. C’è da sperare in una distribuzione italiana. Seppur non ancora a questi livelli di perfezione, è più che interessante il film colombiano “Alias María“, di José Luis Rugeles Gracia, racconto estremo e atroce della guerrilla nella giungla colombiana, vista con gli occhi di una giovane combattente, María, tredicenne e incinta, di cui seguiamo un itinerario di crescita e distruzione in un microcosmo di violenza, orrore, maschilismo. Il film, piccolo ma significativo, vale più per le atmosfere, lo stile, il messaggio, che non per il ritmo e l’evoluzione narrativa, funzionali solo per tenere in piedi lo sguardo soggettivo su un luogo, un tempo, una situazione nuove e necessarie al cinema contemporaneo. Un consiglio quindi ai cinefili e ai distributori, quello di scoprire, riscoprire, investire attenzione sul fenomeno latinoamericano, perché da anni è in questo continente disgraziatamente così lontano da Dio e così vicino agli Stati Uniti che vivono le storie più belle e le voci più singolari di questa meravigliosa settima arte.