CANNES – Non ci sono tante parole da scrivere su “Dheepan“, il nuovo film di Jacques Audiard. É semplicemente a un livello superiore rispetto a quanto visto finora a Cannes, ma anche in confronto a qualsiasi altro film europeo contemporaneo (per non dire francese). Audiard è un vero maestro, uno di quelli che la storia del cinema ricorderà, perché il suo occhio, umano e feroce a un tempo, ha saputo e sa tuttora indagare e documentare in modo unico la realtà sociale dell’Occidente, incarnato da una Francia che funge da finta Eldorado, teatro di violenze e meschinità senza pari, attraverso storie sociali particolari e universali a un tempo, terribili e intense. L’arte del racconto, l’emozione, l’inventiva visiva, fanno del suo ultimo film un’esperienza travolgente, tutta da vivere e sentire. L’itinerario di tre immigrati dello Sri Lanka, che si fanno passare per padre, madre e figlia, sotto falso nome, sembra iniziare quasi bene a Parigi prima, e poi nella sua periferia, dove lui, Dheepan, é assunto come custode di un immobile, lei, Yalini, come signora delle pulizie per un anziano invalido, e la piccola Illayaal fa progressi col francese a scuola. Ma il sogno dell’integrazione resta tale, e ben presto la violenza nascosta del luogo, animata da criminalità giovanile e razzismo, si espande ed esplode proprio nei confronti di chi, povero e disgraziato, era fuggito da un paese in guerra. Dheepan, che sognava una nuova vita in Europa e fare sua questa famiglia casuale che si è trovato per necessità, risveglia la sua anima di combattente e guerriero e reagisce con sempre maggiore foga alle provocazioni del mondo esterno. Per come è scritto, diretto, interpretato, per il messaggio critico e attualissimo sul problema dell’immigrazione e dell’integrazione, “Dheepan” è di gran lunga il capolavoro del festival, e uno dei film dell’anno. Potente, incisivo, toccante, traboccante umanità e ferocia, capace come solo il cinema di Audiard di raccontare i contrasti tra bene e male in seno all’uomo e alla società, con una regia vera e veritiera, onesta e necessaria, durissima, violentissima, eppure aperta anzi spalancata all’amore e alla solidarietà, vicina al racconto di finzione ma anche alla realtà dei nostri tempi, è un’opera sensazionale, bellissima, di cui si sentiva il bisogno. Capolavoro di cinema e umanesimo, sorprendente e esaltante, ti cattura dalla prima all’ultima meravigliosa scena, creando quel rapporto di intimità, empatia, emozione con lo spettatore che il cinema sta sempre più di rado offrendo. Che si facciano tutti un regalo, vedano questo film, lo premino, lo diffondano, perché è da questo tipo di opera che il cinema e la società possono rinascere e migliorare.
Ancora in competizione, il ritorno di Jia Zhang-ke, a due anni dal premio per la sceneggiatura di “A Touch Of Sin”, è un film altrettanto particolare, tentacolare e frammentario che il precedente, a cui è inevitabilmente inferiore. “Mountains May Depart” è altresì diviso in tre storie, ma tutte incentrate sugli stessi personaggi, in tre epoche diverse, 1999, 2014, 2025. In modo geniale, anche lo stile e il taglio dell’inquadratura sono diversi, a seconda dell’epoca: 4:3, 16:9, Widescreen. Lo schermo si allarga man mano che i personaggi crescono e la storia avanza, entra nel vivo ed evolve. Ma il modo di raccontare del regista cinese è comunque difficile, spezzettato, particolarissimo di una cultura e di un modo di sentire la vita, e quindi non per tutti. Al centro di una storia che si spiega su tre decadi, ci sono Tao, una insegnante di scuola, e il minatore Liang, da lei lasciato in favore del ricco Jinsheng. Partito in esilio, Liang torna poi a Fenyang anni dopo, ormai malato, e trova Tao divorziata. A sua volta, nel terzo segmento, Dollar, il figlio di Tao e Jinsheng, progetta di partire in Australia e si lega a una donna matura. Vasta e densa, la storia offre troppi spunti e si perde nella sua rete di sottotrame, nel suo groviglio di personaggi, nella sua non linearità (benché c’è chi dice che sia il film più classico e accessibile del regista). Come nel film precedente, lo sguardo sulla Cina contemporanea che tende a ovest e si fa sempre più capitalista, è personale e critico, ma il film si gode a sprazzi, con momenti discontinui di bellezza e indifferenza. Troppo poco per farne un grande film, ma ha comunque il suo peso in una competizione volta a panorami diversi e internazionali.