Nel suo ultimo libro “Uomini nelle gabbie” (ed. Il Saggiatore, 2015, p. 337, 17€) il giornalista Viviano Domenici (collaboratore e responsabile delle pagine scientifiche del Corriere della Sera) analizza un lato del colonialismo che raramente ha trovato spazio nei libri di storia scolastici, così come nei dibattiti sul tema, generalmente rivolti ad approfondire principalmente le conseguenze politiche ed economiche della colonizzazione occidentale. E’ il lato della spettacolarizzazione del “selvaggio”, la cui “inciviltà” è stata esposta al pubblico delle grandi città occidentali, lungo tutto l’arco di tempo che va dalla “scoperta” dell’America fino ad oggi, dai primi zoo umani passando per i padiglioni delle Grandi esposizioni fino alla vacanza etnica in voga nei nostri giorni.
Si parte da Cristoforo Colombo che, tornato in Spagna dalla prima spedizione nel 1493 portò con sé pepite d’oro, tabacco, pappagalli, e dieci indios taino, ai quali più tardi fece seguire seicento schiavi. Nel 1528 Hernan Cortés portò dal Messico una squadra di giocatori di palla aztechi che si esibirono davanti ai sovrani spagnoli in un’acrobatica partita. Nell’estate del 1550 Durand de Villegagnon, il fondatore della colonia della Francia antartica in Brasile, fece esibire dinanzi al re Enrico II e sua moglie una cinquantina di uomini seminudi che combatterono tra loro in un villaggio ricostruito, simulando uno scontro tra i guerrieri tupinamba, alleati dei francesi, e i loro nemici tabajaras.
Scrive l’autore: “Con la scoperta del Nuovo Mondo l’Europa instaurò un rapporto di dominanza ‘naturale’ sui popoli appena contattati e nello stesso tempo ribadì la posizione centrale dell’uomo bianco, organizzando una gerarchia degli esseri umani sulla base della distanza geografica e culturale dal modello europeo”. Successivamente, il macabro privilegio di poter assistere alle esibizioni dei selvaggi si estese, dalla ristretta cerchia della corte regia, al cittadino comune. Il fenomeno tocca il suo apice infatti con la formazione dei grandi imperi e la creazione delle Esposizioni universali: “Un’angosciante sfilata ricostruita resuscitando i 35-40 000 sventurati che, tra il 1870 e il 1940, attraversarono le strade di Parigi, Londra, Torino, St. Louis, Genova, Marsiglia, Amburgo, New York, Barcellona, Berlino, Anversa e tante altre città europee e americane, per andare a sistemarsi nei recinti degli zoo e dentro le gabbie con gli animali. Dove accorsero a vederli poco meno di un miliardo e mezzo di benpensanti smaniosi di scoprire come erano fatti gli Altri, per poi mandare cannoni e baionette per portare civiltà e vera fede nelle terre dei selvaggi”. Il libro di Domenici è anche un contributo importante per inquadrare storicamente le origini delle Expo, e per capire il ruolo che queste esposizioni hanno giocato nella creazione dell’ideologia occidentale, contribuendo a legittimare interventi militari e conquiste.
Sotto un’altra forma, gli zoo umani moderni riproducono esattamente lo stesso meccanismo: “I bianchi hanno da sempre l’abitudine di guardare gli Altri ma, poiché non sarebbe più politicamente corretto portarli nei recinti dello zoo cittadino come facevamo un tempo, oggi andiamo a vederli nel loro esotico ambiente naturale. L’associazione tra africani e zoo è un demone annidato nel pensiero occidentale, che periodicamente riemerge. L’ultimo caso europeo si è verificato nel 2005 ad Augusta, in Germania, quando fu inaugurato un african village all’interno dello zoo dove, tra leoni, tigri, elefanti e scimmie, furono realizzate capanne di paglia con stand gastronomici, oggetti artigianali, parrucchieri per acconciature afro e altre specialità dell’Africa più o meno nera”. L’autore descrive inoltre vari casi contemporanei di turismo etnico. Tra gli altri quello delle donne-giraffa, esposte al pubblico nei villaggi-prigione realizzati per loro nella Thailandia settentrionale, dove 80.000 turisti l’anno vengono attratti dallo spettacolo del collo stretto in una serie di spire metalliche; uomini e bambini dell’etnia jarawa delle isole Andamane in India, costretti a ballare per i turisti in cambio di cibo (generalmente banane e noccioline). L’ultima frontiera di questo genere di turismo è il “poorism“, che consiste nella visita nelle favelas o nelle bidonville: “Oggi la favela di Rochina (Rio de Janeiro) viene ‘venduta’ dalle agenzie turistiche come la più grande dell’America del Sud ed è visitata da 3500 turisti al mese. Molti di loro credono di aiutare chi ci vive a uscire dalla povertà e dalla violenza e non si rendono conto che la violenza non è dovuta solo allo strapotere dei trafficanti di droga o al disprezzo delle élite brasiliane, ma è anche il prodotto di un modello economico ingiusto, di cui gli stessi turisti fanno parte”.