Il tema del viaggio è stato spesso ricorrente nella letteratura e nella storiografia di ogni epoca. L’interesse deriva soprattutto dal fascino della scoperta, dalla voglia di venire a conoscenza di nuove realtà ed approcciarsi a scenari unici, e le testimonianze giungono soprattutto dai resoconti di viaggio dei protagonisti. Un racconto del genere ha anche la peculiarità di presentare un punto di vista differente, magari non preventivamente schierato in quanto “terzo”: è il caso delle avventure di inglesi e americani diretti a Napoli e nel Mediterraneo nella prima metà del XIX secolo. Mentre per i primi il viaggio al Sud era un rito di passaggio che affondava le proprie radici nella tradizione del Grand Tour, per gli americani l’Atlantic Tour era un’esperienza completamente nuova.
I giudizi su Napoli e il Mezzogiorno erano prevenuti e aprioristici già nel periodo preso in esame, tra il Settecento e l’Ottocento. Eppure, l’Italia del Sud non era (e non è) solo quel “meridione indolente”, degradato e degradante, che emerge dai soliti stereotipi. L’asse del continental journey si spostava sempre più verso il Sud, verso una Napoli “nobile” per le processioni, le feste e lo sfarzo della corte. “Bella, incantevole, ma ingannevole Napoli”, ecco lo slogan straordinariamente efficace, proprio perché al tempo stesso drammaticamente inquietante, che emerge dalla lettura di Innocenti all’estero (R. M. Delli Quadri, Innocenti all’estero. Inglesi e Americani a Napoli e nel Mediterraneo, ESI, Napoli, 2012): tra mito e realtà si muoveva una capitale spettacolare, fatta comunque anche di eccessi e forti contrasti. Il percorso per raggiungerla da Roma, attraverso le Paludi Pontine, restava difficoltoso, insidioso, con carenza di strade, pericoli, emarginazione. Una Napoli dai due volti, la città degli incanti e degli inganni, una capitale capace di costituire a fasi alterne l’affascinante o l’inquietante zona di confine tra l’Europa e il Levante, tra l’Europa e gli altri. La degradazione contrastava con la gloria della natura e dell’arte, e alla folla di sventurati, miserabili e venditori che vivevano per strada si contrapponeva una nobiltà in carrozza che ostentava fortune e inutili fronzoli, e che aveva bisogno proprio di quei fannulloni per poter sopravvivere.
In tutto questo, le memorie dei viaggiatori riescono nel preciso intento di smontare i cliché, smantellando quelle false notizie fatte circolare ad arte.
Per quanto riguarda poi la figura del viaggiatore statunitense, il suo iter lo portava dal Nuovo al Vecchio Mondo. È opportuno sottolineare la portata di eventi come quelli di fine Ottocento: nel tentativo di frenare l’avanzata internazionale della marina mercantile americana, l’Inghilterra ne bandì il commercio diretto alle loro isole e alle Indie occidentali, e tale limitazione provocò l’ingresso degli USA in altri mercati, tra cui proprio quello mediterraneo. Se il Settecento per il Mediterraneo e per l’Europa era stato il secolo del “mare inglese” e del Grand Tour, l’Ottocento si può considerare senz’altro quello del “mare americano” e dell’Atlantic Tour. Tra il 1830 e il 1840 c’è la maggior concentrazione di viaggiatori, ancor più decisa tra il 1847 e il 1849, cioè negli anni in cui la rivoluzione liberale riuscì a scuotere la capitale del Regno, attraendo e non respingendo gli uomini d’oltre oceano. Il percorso di tale tour atlantico era favorito dal progresso industriale e dall’espansione economica che caratterizzò il periodo a cavallo tra XVIII e XIX secolo, con l’impiego del vapore per la realizzazione dei primi piroscafi.
Anche il Levante risultava, e probabilmente ciò è vero ancora oggi, un mondo da scoprire, pieno di mistero ma anche di stereotipi. Dalle fonti memorialistiche dei civili americani presenti a bordo delle fregate ottocentesche emerge la testimonianza e la visione della composita realtà mediterranea. Il modo di porsi di fronte al viaggio non era più quello del corriere, bensì quello del viaggiatore, e il percorso divenne finalmente importante quanto la meta. Si stabilirono intanto continui contatti tra l’America e la Sublime Porta. L’ingresso della prima nave da guerra statunitense a Costantinopoli si fa risalire al 1800; le diverse flotte turche guardavano con curiosità al naviglio statunitense intrattenendo buone comunicazioni, e anche gli americani valutavano con attenzione un’espansione verso Est in grado di offrire ottime possibilità di investimento. I giudizi su Costantinopoli, ribattezzata “gemma dell’Oriente”, sul Corno d’Oro, sul Serraglio e sul Bosforo erano molto positivi, e il turco venne percepito come onesto, affidabile, magari misterioso, ma fedele e ospitale. In ogni caso, nel confronto tra il Vecchio e il Nuovo Mondo, gli americani apprezzavano sempre la propria forma repubblicana di governo come quella infinitamente preferibile a qualsiasi altra, sentendo fortemente l’appartenenza alle proprie radici, ed esaltando l’America come “terra di libertà”.