di Marco Passero
Esattamente un anno fa, l’11 Agosto 2014, Hollywood e il mondo intero piangevano la prematura scomparsa di Robin Williams, trovato impiccato all’età di sessantatre anni nella sua abitazione di Tiburon, San Francisco.
Attore “dai mille volti” è un’espressione bistrattata, usata così spesso e per così tanti geni del grande schermo da sembrare una frase di circostanza. Ma Robin Williams è stato davvero una delle personalità più duttili della storia del cinema. Dotato anche di una capacità di improvvisare unica, in quarant’anni di carriera ha mostrato di saper essere estremamente comico e, un attimo dopo, infinitamente drammatico.
Oggi i suoi film rappresentano la preziosa eredità per evitare di restare soltanto con sgomento e senso di impotenza. Perché con Robin Williams non se n’è andato semplicemente un attore, ma un artista eclettico, capace con le sue interpretazioni di essere irriverente e profondo allo stesso tempo. Chi è nato a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta è cresciuto a pane e “Mork & Mindy”, una serie tv andata in onda in Italia dal 1979 in cui Robin Williams interpretava un alieno e che fece conoscere al mondo quel talento incredibile. Per quanto riguarda il cinema, invece, non esiste un riferimento temporale: dall’interpretazione del disc-jockey dell’aviazione degli Stati Uniti Adrian Cronauer in “Good Morning Vietnam” di Barry Levinson arrivò la prima nomination all’Oscar al miglior attore protagonista, e iniziò la sua ascesa e l’incantevole susseguirsi di personaggi indimenticabili e indimenticati. Il professor Keating che, in “L’attimo fuggente”, insegnava ai ragazzi del college del Vermont a non arrendersi per realizzare i propri sogni, a guardare la vita da un punto di vista differente proprio quando si pensa di sapere ogni cosa, l’eterno bambino Peter Pan in “Hook” di Steven Spielberg, un genitore pronto a improvvisarsi tata, “Mrs. Doubtfire”, con un travestimento perfetto per stare insieme ai propri figli aggirando la decisione contraria del giudice, il protagonista di un gioco di società come “Jumanjii” che ha segnato una generazione, un’interpretazione magistrale al fianco di due giovanissimi e talentuosi Matt Damon e Ben Affleck in “Will Hunting”, che gli è valsa un premio Oscar più meritato che mai, o ancora un medico pronto a scegliere la gioia e la risata per aiutare i bambini malati ad affrontare la vita, in “Patch Adams”, o l’automa Andrew in “L’uomo bicentenario”, un prototipo di robot dall’umanità spiazzante. Il trasformismo è stato insomma la sua cifra stilistica.
Da quell’11 agosto di un anno fa la settima arte ha perso uno dei suoi figli più completi e apprezzati. Per quanto riguarda la morte, dopo una serie di esami e accertamenti sul corpo dell’attore, a novembre il suo decesso è stato classificato come suicidio. Ma questa è cronaca nera. Un’artista del genere può e deve essere ricordato per molto altro, per tutto quanto ha saputo regalare a spettatori di tutto il mondo, e per quanto sia stato lieto di farlo: “Io non so quanto valgo nell’universo, ma so che ho reso felici alcune persone più di quanto sarebbero state senza di me, e finché lo so sono ricco, e questo mi basta.”