Dopo Congo, pubblicato un anno fa in Italia da Feltrinelli, David van Reybrouck (ricercatore e giornalista belga) interviene nel dibattito sul tema della democrazia col suo nuovo libro Contro le elezioni, perché votare non è più democratico (Ed. Feltrinelli, 2015, 155 p.,14€). L’apertura del libro descrive a colpo d’occhio la grande contraddizione delle democrazie contemporanee:
“Succede una cosa strana con la democrazia: tutti sembrano aspirarvi, ma nessuno ci crede più”.
La struttura del libro più che ricordare quella di un saggio di analisi politica, ricalca invece lo stile di un trattato di patologia speciale, essendo diviso in quattro capitoli intitolati rispettivamente: sintomi, diagnosi, patogenesi e rimedi.
L’autore mette a fuoco quelli che a suo giudizio sarebbero i due principali sintomi con cui si manifesta “la sindrome di stanchezza democratica” in Occidente: la perdita della legittimità e la perdita di efficienza.
La crisi della legittimità si manifesta attraverso la sempre crescente quantità di elettori che si astengono al momento del voto: “Nel corso del primo decennio del Ventunesimo secolo la percentuale di votanti è scesa addirittura sotto il 77 per cento, il livello più basso dalla Seconda guerra mondiale. In termini assoluti, si tratta di milioni di europei che non vogliono più andare alle urne”. Tale percentuale si mantiene ancora alta, ma è da tenere in conto il fatto che in alcuni stati dell’Unione europea andare a votare è obbligatorio per chi ne ha diritto.
Inoltre vi è la crescente incostanza degli elettori, in termini sia di fiducia stabile in un qualche partito (il fenomeno della volatilità elettorale), sia per quel che riguarda l’effettiva militanza politica “di partito”. Negli stati membri dell’Unione Europea, in media solo il 4,5 per cento degli elettori è ancora iscritto ad un partito.
Per quel che riguarda l’effettività della democrazia, cioè la sua capacità di agire, la situazione è altrettanto critica. I tempi per formare i governi ad esempio, vanno dilatandosi, in molti casi lasciando il passo a lunghe fasi di stallo (l’autore cita i casi di Grecia e Italia) molto spesso a causa di “intrighi di palazzo” costituiti da partiti che non sempre sono disposti a pagare il prezzo di creare esecutivi “allargati”, così come si allungano i tempi necessari per varare le leggi. In più, è la stessa azione pubblica a richiedere tempi sempre più lunghi. Scrive Reybrouck: “Se lo scavo di un tunnel o la costruzione di un ponte sono ormai fuori dalla loro portata, cosa sono capaci di fare ancora da soli i governi nazionali? Ben poco, poiché qualsiasi cosa facciano, sono legati al debito nazionale, alla legislazione europea, alle agenzie di rating americane, alle imprese multinazionali e ai trattati internazionali”.
Varie sono le diagnosi possibili: quella populista, che connette la crisi della democrazia ai politici corrotti o incapaci; quella della tecnocrazia, che sostituisce alla figura del politico quella del manager, dello specialista capace di assumersi anche il peso di portare a termine misure impopolari; la diagnosi della “democrazia diretta”, che cerca di includere direttamente il ”cittadino” nel processo decisionale, come il Partito Pirata in Svezia, il G500 in Olanda o il Movimento 5 Stelle in Italia.
Nel corso degli altri due capitoli del libro (patogenesi e rimedi), Reybrouck mostra i limiti della democrazia rappresentativa elettiva, osservando come essa sia nata non per includere realmente tutti i cittadini al governo, ma solo per far sì che alcuni di loro – i più ricchi o i più potenti – arrivassero ad esercitare il potere. La democrazia indica che il potere è esercitato dal popolo, il procedimento elettivo/rappresentativo però sembra non rispettare a pieno questo principio. L’autore cita Aristotele, che a proposito della costituzione di Sparta affermava “contiene numerosi elementi oligarchici; per esempio tutte le magistrature sono elettive, e nessuna è sorteggiata”.
La dettagliata disamina storica che Reybrouck compie partendo dalla Grecia antica passando per la Rivoluzione Francese e arrivando ai giorni nostri, è volta a dimostrare che le elezioni sono una procedura “aristocratica” a differenza del sorteggio, che invece può davvero garantire a tutti i cittadini la piena partecipazione politica. Se questa è la diagnosi, qual è il rimedio?
L’autore propone uno “schizzo di democrazia basata sul sorteggio” basata su un modello bi-rappresentativo: “Una Camera composta da cittadini estratti a sorte. […] In questa fase della democrazia, la legislazione sarebbe il frutto di una collaborazione tra i rappresentanti eletti e quelli sorteggiati”. I cittadini sorteggiati, non avendo la preoccupazione di far funzionare il partito, né fare campagna elettorale o intervenire nei media, disporrebbero di più tempo dei loro colleghi eletti nell’altra Camera legislativa. Un dubbio però resta: sarà realmente possibile “convincere” le classi che attualmente dominano a cedere il loro potere esibendo loro un cartellino estratto a sorte?Oppure questo metodo presuppone che vi sia nella società una certa “omogeneità” di interessi, che non vi siano particolari conflitti in atto? D’altronde Reybrouck stesso sembra esserne cosciente quando conclude: “E’ la quiete del 1850, quando la miccia della questione operaia fumava, ma non aveva ancora dato fuoco alle polveri. E’ la quiete che precede un lungo periodo di instabilità”.