Morti trentaquattro migranti. Ancora. In un naufragio nel sud-est del Mar Egeo. Con molta probabilità, metà delle vittime sono bambini: quattro neonati, sei bambini e cinque bambine. Sul barcone si trovavano centododici persone.
Nel mentre, l’Europa continua la sua parata di brutte figure nella gestione dell’emergenza. Anche la Germania – che dopo la sfilza di chiusure e di continui rimandi di presa di posizione, che l’hanno portata ad aprire le frontiere per sostenere l’enorme problema di ‘immagine’ come leader dell’Europa – non ne può più. Così, dopo l’apertura delle frontiere, in mattinata la Merkel dichiara il “fallimento completo” dell’Ue nel difendere le frontiere esterne, che ci trasmette il dato che nessun altro ha iniziato a ragione in termini di risoluzione del problema.
Era forse la speranza tedesca, quella che i paesi del nostro continente, seguendo il suo esempio, si impegnassero nella risoluzione – o almeno appianamento – di un problema che ormai travalica ogni stato europeo, perché contro la morte c’è poco da poter gestire mediaticamente, se non attuando politiche che effettivamente risolvano o quantomeno recuperino sul fronte di una colpa pesata con il nome di ogni bambino morto in un barcone in pieno mare aperto.
Nessuno crede che la Germani abbia immaginato un piano risolutivo che fosse altro dalla gestione meramente economica del problema: se c’è un problema che lede l’immaginario intorno al giusto modo di governare – dall’austerity all’autoritarismo – va risolto, ma solo in termini di nasconderlo sotto il tappeto. Quindi, trovati i fondi, tutto è risolto. Non è in altro modo che questo problema risulta nell’agenda politica europea. E quindi, continuerà ad esistere.
Continuerà ad esistere perché non vi è lontanamente l’intenzione di ripensare il modo con cui ci relazione all’altro, né di affrontare problemi quale il razzismo, l’odio del diverso, la criminalità organizzata, etc., problemi che qualcuno definirebbe ‘sovrastrutturali’ ma che (questo spesso se lo dimenticano certi intellettualoidi) non sono marginali poiché esclusivo riflesso della struttura economica dominante, ma devono essere inquadrate nei termini della categoria astratta in cui ingabbiamo titoli di giornali, discussioni da bar, ma che in realtà sono esattamente tutti quei bambini morti in mare, i ragazzi uccisi per strada, gli omosessuali picchiati, le donne stuprate, i padri e madri che si suicidano perché non riescono a sostenere il dolore del non poter dare ai figli ciò che è banalmente una vita dignitosa, la possibilità di studiare, di formarsi e di vivere serenamente. Niente di più, niente di meno.Tutto questo continuerà ad esistere perché permettere alle persone di capire (cos’altro fa o dovrebbe fare il Sapere, quindi ciò che studiamo all’Università o nelle Scuole?) non favorisce alcun tipo di autoritarismo. Perché chi comprende sceglie. E ci meraviglieremmo molto nello scoprire che sceglieremmo gli altri piuttosto che noi, se sopravvivere noi significa creare esclusi, causare morti, alimentare solitudini.
Ciò che sta succedendo in questi giorni, dalla marcia della libertà che dall’Ungheria ha sfidato confini e barriere alla marcia delle donne e degli uomini scalzi, è la cartina da tornasole di un’Europa che si fonda sulla libera circolazione dei capitali, ma che condanna gli esseri umani all’impossibilità di muoversi e di spostarsi.
È fondamentale riaprire il dibattito su quale sia la risposta che come Europa vogliamo dare alla questione. Certo continuare a lasciare a paesi come al Germania, che senza troppi indugi sfruttano i paesi del Sud Europa contrapponendo un’austerità troppo pesante per le spalle di regioni del mondo distrutte e mai (per volontà di politiche scellerate e vincolate e poteri interessati al progresso e all’arricchimento del Sud) sviluppatesi, prendano l’iniziativa e si facciano carico solo di una parte dei richiedenti asilo.
I fatti di questi giorni hanno dimostrato che i popoli sanno essere solidali e vogliono costruire l’alternativa, i governi no. E c’è da chiedersi per quanto tutto questo potrà ancore resistere tra le pareti sottili, sempre più sottili, di un mondo che sta crollando, e di un altro che spinge per nascere. Perché il rischio è evidente: o rinascere, o sparire. Tutti. Che sia in mare o nella sporca coscienza di non essere intervenuti prima, di essersi imposti prima. Di non aver voluto guardare.