Reportage e inchieste, si sa, possono diventare piuttosto scomodi, soprattutto quando il potere ha qualcosa da celare. Se poi parliamo di una critica senza censure alle azioni delle forze armate, e in particolare al modus operandi russo degli ultimi anni del secolo scorso, allora la verità risulta così fastidiosa da provocare le conseguenze peggiori.
Nell’ottobre di nove anni fa la giornalista russa Anna Politkovskaja veniva uccisa a Mosca, proprio davanti al suo appartamento. Autrice di numerosi articoli e libri (La Russia di Putin, Cecenia, Il disonore russo, Proibito parlare), la giornalista aveva criticato apertamente l’operato di Putin e le decisioni delle autorità sovietiche anche attraverso le testimonianze dirette di profughi, militari e vittime di abusi commessi nei confronti della popolazione civile con la complicità del primo ministro ceceno, sostenuto da Mosca, Akhmad Kadyrov. Per l’omicidio della Politkovskaja il 9 giugno 2014 sono stati condannati organizzatori ed esecutori materiali, per un totale di cinque persone tra cui un ex dirigente della polizia moscovita, mentre nessuno è stato ancora coinvolto a livello giudiziario come mandante. Le inchieste della giornalista russa minavano le fondamenta e dunque la stabilità del Cremlino e della sua politica, specie attraverso la denuncia di casi ripetuti e persistenti di violazioni di diritti umani e scarso rispetto dello stato di diritto in Cecenia e in Russia. I ribelli ceceni l’avevano anche indicata più volte come mediatrice.
Nel nono anniversario dell’assassinio, che ricorreva il 7 ottobre, la famiglia Politkovskaja è tornata a chiedere verità e giustizia. Il figlio Ilya si è dichiarato “molto deluso per il modo con cui è stata condotta l’indagine”, affermando di non essere a conoscenza di alcun progresso fatto in tal senso. Dunja Mijatovic, rappresentante dell’Osce per la libertà dei media, ha sollecitato il governo russo a tutelare la categoria dei giornalisti e a porre fine all’impunità di fatto esistente per i crimini contro chi analizza, indaga, scrive e infine denuncia con coraggio: “La Politkovskaja ha pagato il prezzo più estremo per il suo impegno di una vita per il giornalismo investigativo. […] La sua morte ci costringe a ricordare che la sicurezza dei giornalisti deve essere affrontata in modo adeguato in Russia. Molto di più rimane da fare per sradicare l’impunità per i crimini commessi contro i giornalisti che svolgono un ruolo cruciale nel fare avanzare la democrazia e il rispetto dei diritti umani, spesso con rischi personali elevati”.
“L’unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede”: in una pregnante e laconica sentenza è raccolta l’eredità di una grande donna, con l’auspicio che la sua storia e le troppe vicende analoghe possano essere uno stimolo più che un disincentivo al fascino della scrittura, dell’indagine, della critica.