(…)
a morire ci vuole una vita
e neanche
un attimo
(Charles Bukowski)
La battuta di arresto del Governo continua, ancora una volta attraverso le piazze. 60.000 studenti in tutto il Paese per ribadire che la Scuola e l’Università di Renzi non piacciono a nessuno dei protagonisti dei luoghi della formazione. Dopo le piazze contro il Jobs Act, lo Sblocca Italia e la Buona Scuola, il premier ha rallentato la sua corsa apparentemente irrefrenabile. Benché sulla riforma del Senato risulti ancora vincente (e quindi vincente ancora nel suo progetto di ricostituzione del Paese in Parlamento), da parte del consenso pubblico scema la sua scalata.
Il fallimento è dato da un’incapacità di saper parlare al Paese sia sul piano culturale, sia su quello socio-economico. Il suo finto gioco democratico delle consultazioni con la società civile a porte chiuse, prende una nuova svolta di invito alle forze politiche e le associazioni presenti sul suolo italiano. Eppure l’unico interlocutore del Governo pare continui ad essere ancora Confindustria. Ed è chiaro che la risposta del premier non potrebbe che essere che Confindustria è la forza industriale principale italiana e che quindi diventa per un rapporto di forze l’interlocutore necessario per uscire dalla crisi. Eppure le piazze non sono d’accordo.
Non sono d’accordo perché se non si investe nella cultura, nelle scuole, nelle università, negli ospedali, qualunque forma di interlocuzione con i potentati storici italiani, risulta un’operazione al solito classista e antidemocratica. Il Governo ha fallito per la totale incapacità di parlare al Paese e provare a costruire percorsi di solidarietà sul tema dell’immigrazione quanto su quello delle unioni civili: c’è un pezzo dell’Italia che sta gridando la sua non solo voglia ma necessità di cambiamento. Eppure continua ad essere ignorata.
È evidente che l’impasse si crea sul tema culturale del Paese, totalmente immerso – più o meno consapevolmente – in un sistema culturale che impone la competitività come metro di giudizio (ecco come il merito, attraverso la sua azione di essere l’elemento che giudica il valore degli individui, si ripropone nella società).
Se il dibattito non si fonda sul come cambiare il modello di sviluppo, il processo di formazione, cambiando il presupposto secondo il quale tutta la società è in competizione con se stessa, nessuna riforma potrà avere realmente un consenso.
La futura riforma della fiscalità pericolosamente tende a diventare un dibattitto amarcord del periodo berlusconiano: tasse sì/tasse no, con un vecchio centrosinistra, totalmente abbandonato alla sua unica esigenza di esistere ancora nell’ipocrisia del passato che fu, e un presente che fa loro scontare l’essersi venduti fino all’ultimo briciolo di ideologia su cui basare il proprio operato.
Nel mentre, sul fronte universitario, sempre più evidente è il processo di esclusione dai luoghi della formazione attraverso un mancato accesso al Diritto allo Studio, all’aumento delle tasse, all’impraticabilità di vivere le università e i centri in cui queste sono collocate: è un vecchio problema – ovviamente irrisolto – quello dei trasporti, soprattutto nel Meridione. La riforma dell’ISEE e il conseguenziale aumento tasse per reddito più alto (si è paradossalmente più ricchi anche se – e in moltissimi casi è così – le proprie condizioni d’esistenza non sono migliorate, anzi peggiorate) sono esempi emblematici di questo processo di ghettizzazione e di sempre maggiore esclusione dall’Università.
L’Università dovrebbe riprendere il suo ruolo sociale e culturale, e quindi non essere vista come punto di partenza solo per una futura prospettiva lavorativa (“la terza missione dell’Università”), ma come polo centrale di una società e come strumento di emancipazione per ogni individuo che voglia autodeterminarsi. Questo processo è oggi pressoché impossibile a cause delle barriere imposte all’Accesso ai Saperi e ai luoghi della formazione, spazi oramai sempre più escludenti e ristretti, nei quali non tutti possono trovarci il proprio posto e avere il diritto di scegliere del proprio futuro e della propria vita. Il Mezzogiorno è devastato da politiche di sfruttamento su tutti i fronti, ovviamente anche quello che riguarda i luoghi della formazione. Ed è proprio al Sud quindi che si gioca la vera sfida, la vera rottura delle contraddizioni di un sistema che ormai ha messo in ginocchio troppe persone e ha distrutto troppe vita, avvelenato troppe terre, incontrovertibilmente rovinato ogni tipo di paesaggio.
Un esempio: poco tempo fa, il Rettore della Federico II, Manfredi, è stato eletto – all’unanimità e da unico candidato, così come fu per l’elezione a Rettore – Presidente della CRUI. Le sue prime dichiarazioni sono state spese per parlare e discutere della difficile situazione del Mezzogiorno, sui definanziamenti dei nostri Atenei e sulle disparità evidenti che ci sono con il resto del Paese. Tutto ciò, però, discorda con la stortura democratica del 24 luglio, quando ha convocato prima il CdA del Senato per far votare la proposta di innalzamento del 25% delle tasse universitarie: il totale disinteresse per lo sbarramento all’accesso alla formazione degli studenti è mascherato dal dover far quadrare i conti all’interno di un sistema universitario totalmente abbandonato da tutti. È dunque evidente che nelle nostre Università è l’individualismo a farla da padrone, ed è per questo che è sempre più difficile costruire processi collettivi, soprattutto a causa della retorica della meritocrazia, profondamente dilagante in questi luoghi e che non fa altro che mettere in competizione gli studenti gli uni con gli altri.
È per questo che si è ritornati in piazza, più carichi che mai. Nella data della mobilitazione convocata dalla Rete della Conoscenza – lo scorso 9 ottobre – si rivendicava il proprio diritto a potersi emancipare, a vivere costruendo percorsi collettivi di partecipazione che permettano di vincere l’unico orizzonte esistenziale possibile nei nostri tempi – la precarietà – con un’azione collettiva che sappia ripensare la società e il rapporto con l’Altro.
Si è scesi in piazza contro tutto: era il Paese nuovo, il nuovo vero, contro il marciume. Quel marciume che non teme di avvelenare le nostre terre, distruggere i nostri futuri, o di stroncarli nel bel mezzo della notte, magari con un colpo di pistola. E magari quel colpo di pistola colpisce uno studente, un diciassettenne. Quel ragazzo si chiamava Gennaro Cesarano. Il corteo degli studenti, venerdì scorso, si è concluso proprio in quella piazza dove Gennaro è scomparso, intitolando la piazza al ragazzo. E non esistono parole d’addio. Solo il ricordo. “Le mani sulla città – dicono i manifestanti – da ora le mettiamo noi. La città è degli studenti. Vogliamo poter scegliere il nostro futuro, le nostre vite”.