di Gianmarco Botti
In queste settimane il “Corriere della Sera” propone ai suoi lettori una collana dal significativo titolo “I classici del pensiero libero”: Voltaire, Rousseau, Beccaria e poi Darwin, Freud, Smith e ancora M. L. King, Giovanni XXIII e Mandela, per citarne alcuni. Pietre miliari della filosofia, delle scienze, del pensiero politico ed economico che hanno contribuito a costruire i valori e le idee su cui si fonda l’Occidente così come lo conosciamo. Più che proporre qualche consiglio per gli acquisti (anche se ritengo il prodotto di sicuro valore), mi interessava introdurre un ragionamento che sto facendo in questi giorni. Mi sono chiesto: il pensiero greco antico, dal quale pure prende le mosse la filosofia e la cultura occidentale tutta e che in campo socio-politico ha nella Repubblica di Platone (assieme alla Politica di Aristotele) la sua pietra angolare, può essere ritenuto un esempio, il primo, anzi l’origine stessa, di quello che chiamiamo pensiero libero? La risposta del filone principale della critica nel XX secolo è chiara: no. Soprattutto Popper che, in La società aperta e i suoi nemici, annovera Platone fra questi ultimi dedicandogli addirittura il primo tomo dal titolo eloquente Platone totalitario, ha contribuito a legare le sorti del pensiero politico platonico a quelle del totalitarismo storico e ideologico. Nel progetto di società esposto nella Repubblica sono stati visti i semi delle ideologie totalitarie che hanno dominato il secolo scorso e che in qualche parte del mondo continuano ancora a sopravvivere: uno stato che prevale sugli individui, i quali mettono in comune la propria dimensione privata, rinunciando ai loro beni e ai rapporti familiari (pure quelli padre-figlio, con i bambini che divengono “figli di tutti”, come proporrà anche Il Contratto sociale di Rousseau, fra le prime uscite della collana del “Corriere”) rievoca gli scenari del collettivismo esasperato di stampo sovietico, così come l’imposizione di pratiche contraccettive per controllare la popolazione ci porta alla Cina moderna; la selezione degli individui più forti e capaci di difendere lo stato con l’eliminazione dei più deboli, oltre a collegarsi direttamente alla Sparta dei neonati gettati dal monte Taigeto, ricorda le politiche eugenetiche della Germania hitleriana. Come se non bastasse, frequenti sono i riferimenti polemici alla democrazia, che talvolta ricordano il disprezzo aristocratico delle commedie di Aristofane, da cui pure Platone prende spunto. Ma con quale democrazia se la prende il filosofo? Tutto diventa più chiaro se consideriamo che la democrazia ateniese del tempo per certi versi assomigliava di più a quella che noi oggi chiameremmo demagogia, intesa come eccesso di libertà che porta al caos. Attualissima è la descrizione che Platone fa dei meccanismi di corruzione esercitati dalla massa, in tutto simili ai processi di omologazione portati avanti dai nostri media. Ma qual è la via di uscita che viene proposta? L’antidoto non è certo la tirannia, che per Platone è di gran lunga la forma di governo più corrotta. Per uscire dalla pericolosa diade demagogia-tirannide, torna ancora una volta in primo piano la scandalosa proposta del governo dei filosofi. Le due parole che salveranno lo stato dalla degenerazione sono cultura e sapere. Solo se il potere è illuminato dalla ragione, anche chi è governato può giovarsi di quella luce e allora il coro stonato di voci discordanti si trasforma nell’unica parola espressa dal popolo come soggetto consapevole e dotato di capacità critica: democrazia, quella vera. Ma, come dice Giovanni Reale, nella Repubblica più che un progetto politico, va cercato un orizzonte pedagogico, che si propone di formare l’uomo prima ancora che il cittadino. Vi è quindi una lettura troppo spiccatamente politica alla base dell’ostilità della critica popperiana e non solo nei confronti di Platone. A una considerazione dell’opera per quello che è realmente, apparirebbe chiaro a tutti come essa debba entrare a pieno titolo fra i classici del pensiero libero.