PARIGI, 15 novembre 2015 – “Venerdì 13” è il titolo di una famosa serie di film horror e quanto è successo in questo orribile giorno dal titolo macabro è l’ultimo seguito di una saga orrorifica che sembra non avere fine, ma che ha già stancato tutti. La morte ha colpito quasi a ciel sereno, perché la guardia si era abbassata e gli orrori dello scorso gennaio gettati nel cestino come giornali vecchi e ingialliti. Le bestie selvagge che hanno ucciso la gioia di vivere di innocenti il cui crimine era divertirsi hanno colpito il cuore di un’Europa che ha da poco saputo di avere un tumore troppo a lungo trascurato. Il male è dentro casa, ha la stessa nazionalità delle vittime, risponde allo stesso tricolore con cui le vite spezzate sono ora onorate. Sotterrato così in fondo, sepolto laddove sembra non vederlo, ma è lì che le radici crescono, già malate e mortifere, strangolando tutto quello che toccano. È la guerra, parola brutta e odiosa, ma alla quale bisogna abituarsi. Non mi dispiace di non avere una testimonianza scioccante di venerdì 13 novembre. Non ero in strada, per un caso fortuito e per una pigrizia insolita per essere venerdì sera io e la mia ragazza eravamo a casa pronti a vedere proprio un film horror, secondo un rituale domestico abusato, ma non ci aspettavamo tanto quando gli schermi ci hanno offerto il più feroce e sanguinoso e purtroppo autentico degli spettacoli. E poi una notte di incubi e angosce, la porta chiusa a plurime mandate, un giorno intero chiusi in casa come topi assaporando quel tipo di esperienza raccontato mille volte dai nostri nonni, il silenzio funerario di un condominio e di un quartiere (Montmartre) solitamente movimentato e incasinato fino a causare insonnia, l’orrore moltiplicato dei social e delle televisioni (unica distrazione possibile in un giorno in cui era impossibile distrarsi altrimenti), tutto ciò ha formato un mosaico di rassegnazione e abitudine al male che è la vera radice di questo ennesimo lutto che portiamo dentro, il nostro cancro personale. Ma oggi non abbiamo rinunciato alla libertà e alla gioia di vivere, e con la morte nel cuore abbiamo deciso di uscire e respirare l’aria parigina, in una domenica quasi primaverile, in cui persino i turisti sembrano più taciturni e meno molesti, e la gente nei café, sulle terrazze, nel métro, pochi e muti, hanno sguardi cupi e infiniti silenzi e brevi parole e immense solitudini.
Passiamo per la Place de la République, per la seconda volta in un anno lucernario di chi piange la Francia sconfitta, e quei luoghi dell’11° arrondissement, che mi avevano accolto quattro anni fa al mio arrivo a Parigi e dove tanta giovinezza è trascorsa in notti baudeleriane, sempre così pieni di gioia e vita, e oggi così infinitamente tristi con le transenne della polizia, gli omaggi floreali e le candele spente e biglietti dell’umanità di passaggio, i turisti alla ricerca di un istantaneo successo su Instagram o di un ricordino del loro viaggio, le lacrime vicino a un bar di chi conosceva una delle vittime. Presso la statua della piazza, dedicata alla gloria della repubblica francese, un bambino musulmano con una bandiera della Francia e sua madre con la bandiera algerina si riparano con un ombrello di verità dalla pioggia dei pregiudizi. A pochi passi, sul Boulevard Voltaire, il Bataclan e il suo cartellone della serata tragica si intravedono tra le foglie di un giardino circostante, così come il terribile vicolo in cui cadaveri venivano trascinati dai sopravvissuti, là dove da un’alta finestra una donna preferiva stare in bilico sul vuoto che finire crivellata nella carneficina fatta in nome di un Allah diverso, sconosciuto e per nulla akbar, per nulla grande. È una passeggiata quasi macabra e surreale, in luoghi che una trentina d’ore fa erano pieni di rumore, morte e strazio, oggi tranquilli e pacifici, insospettabili, visitati come musei dell’orrore, come un campo di concentramento ormai innocuo in cui il male è passato e scomparso lasciando una pace beffarda e illusoria. Parigi non brucia come l’idiota messaggio delle bestie neonaziste e nemmeno come nella poesia di Nazim Hikmet, ma brucia della passione, della cultura, della joie de vivre e del bonheur che l’hanno resa una città dai mille volti e dalle mille vite. Molti negozi sono chiusi, i cinema restano al buio e i concerti muti, senza musica né spettatori, ma a poco alla volta la gente esce, respira, parla e vive, e riattiverà l’orologio della vita, con i suoi riti sociali, il divertimento e il lavoro, perché non si piegherà alla morte e alla paura. Resisterà, come ha fatto coi primi nazisti, settant’anni fa. Come dopo Charlie Hebdo, dieci mesi fa. Sarà ancora più dura, ora che tutti siamo coinvolti, ora che morire è più facile di dormire. Le bestie del sedicente stato islamico (scritto in minuscolo perché minuscoli sono) hanno attaccato la sedicente città dell’abominio e della perversione perché per loro andare allo stadio, bere alcol, assistere a un concerto rock, andare a cena fuori sono i simboli della routine di un paese felice e civilizzato, certo perversa per chi crede che uccidere e morire in nome di bugie sia un valore.
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