Se si sogna da soli, è solo un sogno.
Se si sogna insieme, è la realtà che comincia.
(Proverbio africano)
Chiara ed io uscimmo dall’appartamento, per sfuggire al diluvio che si era ormai appropriato di ogni stanza. Una volta fuori lei mi guardo con un’espressione a metà tra l’incredulo e il desolato. Desolato perchè non mi aveva creduto subito, ma ovviamente ancora leggermente incredulo, come se volesse convincersi fino all’ultimo che quello che stava accadendo non fosse vero. “Mi dispiace, ma capisci che non è facile credere ad una storia del genere”, mi disse guardando in basso. L’abbracciai. “Va tutto bene”, la rassicurai, “Ci sono già passato una volta, e ne sono uscito vincitore, ci riuscirò anche questa volta”. Chiara ricambiò l’abbraccio e rimanemmo così per vari minuti, senza dire nulla. Ma poi accadde qualcosa. Il mio sguardo cadde su un passante qualunque in quel pomeriggio dal caldo quasi estivo. Il passante ricambiò lo sguardo e mi mostrò il dito medio incattivendosi improvvisamente in volto. Era già il secondo che lo faceva in pochi giorni, e la cosa non prometteva niente di buono. Un secondo passante, questa volta sul nostro stesso marciapiede, si fermò di colpo e allo stesso modo mi mostrò il dito più lungo della mano in segno di disprezzo. “Forse è meglio che andiamo via”, dissi sciogliendomi dall’abbraccio e prendendola per la mano. “Cosa succede? Perchè ci guardano con tanto odio?”, mi chiese Chiara mentre la tiravo via lentamente. “Non lo so, ma la cosa non mi piace…per niente”. In poco tempo una piccola folla di una decina di persone si era radunata e ci seguiva agitando il dito da destra a sinistra e viceversa. Erano tutti incazzati neri, come se ognuno di loro avesse un ottimo motivo per volerci male e sembrava proprio che da un momento all’altro ce l’avrebbero fatta pagare per ogni malefatta. “Aumentiamo un po’ il passo…con discrezione”, feci tirando Chiara per la mano un po’ più forte e accelerando sensibilmente il passo. I nostri inseguitori fecero lo stesso, e alzarono le dita al di sopra delle teste, come per farle vedere bene anche dal cielo. “Forse è meglio correre proprio”, mi sollecitò Chiara. La guardai un attimo. Ci fermammo. Urlai via e cominciammo a correre. La sporca decina ci inseguì subito. Adesso le dita le avevano portate in avanti, con le braccia tesissime come fossero pezzi di legno. Svoltammo un angolo ed entrammo in una stradina molto stretta, sperando di far perdere le nostre tracce. Ma ogni volta che mi giravo indietro vedevo quella calca scomposta correre a perdifiati alle nostre spalle. Per fortuna eravamo più veloci e cominciavamo a distanziarli, quando cominciai a sentire nella testa il lancinante coro di bambini urlanti che mi aveva tormentato la sera prima. Mi portai le mani alle tempie e inciampai. “Cosa ti prende?”, urlò Chiara cercando di farmi alzare. Mi rimisi in piedi ma barcollavo e le distanze si accorciavano sempre più. Con l’ultimo briciolo di speranza Chiara mi spinse dentro un bar. I nostri inseguitori si fermarono, come se valicare le porte del locale fosse un limite che non potevano superare. Ci guardarono in cagnesco ancora per un po’, poi si sparpagliarono. Mi sedetti. Tutta la stanza mi girava attorno. Le voci stavano scomparendo, ma mi lasciarono come ricordo un gran mal di testa.
Gianni, chiamato da Paolo, era anche lui andato nel mio ufficio. Doveva essere quello il ritrovo per tutti noi “acchiappasogni” improvvisati. Capii subito che qualcosa non andava quando vide la porta d’ingresso accostata. Entrò lentamente, cercando di non fare nemmeno il più piccolo rumore. Si guardò attorno, alla ricerca di quella che poteva essere un’arma, anche se improvvisata, ma che almeno facesse male. Trovò un enorme rotolo di carta per stampare il giornale. Lo issò a fatica e se lo portò lentamente nel corridoio. In lontananza, vide Cioffa che camminava avanti e indietro, mentre a terra giacevano Paolo e Gennaro legati come due salami. Tirò il rotolone e colpì Cioffa in pieno alla schiena tramortendolo.
Dopo mezz’ora, i ruoli erano completamente ribaltati. Cioffa era a terra legato e imbavagliato. Gianni, Paolo e Gennaro erano seduti ad aspettare che Mago Oreste ed io li raggiungessimo, per interrogarlo e cominciare a dipanare quel mistero. Dopo poco eravamo tutti lì, anche Chiara era con noi: da quando le avevo detto con noi aveva tutto il diritto di sapere come sarebbe andata a finire. Ci guardammo tutti in segno d’intesa, dopodichè tolsi il bavaglio a Cioffa per sentire cosa aveva da dire. “Chi sei?”, domandò Oreste, che in quanto esperto esoterico era stato nominato interrogatore ufficiale. “Si chiama Cioffa, no?”, rispose Gennaro con la sua solita ingenuità; “Idiota”, lo apostrofai, “è ovvio che Cioffa ma è anche ovvio che è stato posseduto da qualcuno”; “Ho sempre pensato che fosse un po’ frocio” rispose lui continuando a non capire. A quel punto finalmente Cioffa parlò, inserendosi nel discorso con voce quasi spettrale e del tutto diversa da quella che eravamo abituati a sentire: “Sono uno dei tanti bambini che cerca giustizia, non ho un nome, ma mi sarebbe piaciuto molto chiamarmi Michele o Michael”. Ci guardammo tutti a vicenda, la cosa era strana e misteriosa quanto prima. Così Cioffa continuò: “Vi siete mai chiesti quanti aborti vengono praticati in un anno? Quasi 44 milioni. E avete mai pensato se sia giusto o meno impedire a tanti esseri umani di poter nascere? A tante vite di poter sbocciare e diventare realtà?”. Chiara, molto colpita da quel discorso, rispose: “Tu saresti uno di quei 44 milioni?”. “Si” disse Cioffa gravemente “abbiamo approfittato di una falla nel mondo dei sogni, apparentemente il signore dei sogni è scomparso ed è tutto senza controllo. Così siamo riusciti a bloccare i sogni e ogni volta che qualcuno si addormenta, invece di dar voce all’universo onirico permette a uno di noi di nascere finalmente, seppure in forma eterea”. “E a quel punto che succede?”, chiese Oreste. “A quel punto abbiamo bisogno di un corpo, e ci intrufoliamo nelle case per possederli. La procedura non è propria ortodossa, siamo costretti ad entrare dagli orifizi anali che sono i più pratici e indisturbati. Io non chiedo molto. Noi non chiediamo molto. Semplicemente di avere la nostra opportunità in questo mondo, di vivere le emozioni e le passioni che ci sono state ingiustamente negate. Chi per esigenza, chi per paura o solamente per capriccio, qualsiasi sia il motivo, non è mai giusto negare la nascita di un individuo. Personalmente lo paragonerei all’omicidio”. La stanza cadde in un silenzio triste e pieno di malinconia. Il discorso dello spiritello all’interno di Cioffa non era del tutto sbagliato. Ma d’altro canto per prendere vita questi bambini mancati si appropriavano di altre vite. Come un serpente che si mangia la coda non si capiva dove iniziasse ciò che era giusto e dove ciò che era sbagliato. Decisi di rompere il silenzio con una domanda del tutto egoistica: “Perchè vi siete accaniti contro di me?”. Cioffa mi guardò quasi con odio e disse: “Sapevamo che avevi già incontrato l’uomo dei sogni e sapevamo della tua avventura passata. Abbiamo avuto paura che tu potessi essere più sensibile a questa intrusione nel vostro mondo e scoprire la verità. Il coro di voci doveva servire a scoraggiarti, così come tutti quelli di noi che ti hanno riconosciuto e inseguito per strada. Mi ripeterò, ma non facciamo nulla di male, vogliamo solo assaporare l’aria della vita, l’essenza dell’esistere”.
Il compito che ci si presentava era gravoso. Bisognava trovare l’uomo dei sogni e rimettere ordine. Non era bello costringere quelle vite inespresse a tornare nel nulla ma non poteva nemmeno esistere un mondo così confuso. Bastano già gli orrori e il caos che regnano quotidianamente sulla Terra per una successione di eventi puramente realistici. Se poi ci si mette anche il fantastico, allora la situazione diventa troppo estrema da poter risultare vivibile.