Il filo dell’interdipendenza economica si dimostra spesso insufficiente a prevenire livelli di tensione piuttosto elevati e frenare dichiarazioni dal peso politico molto rilevante nelle relazioni internazionali, soprattutto quando i protagonisti sono paesi autoritari dal fragile e trasparente manto democratico come la Russia e la Turchia. Dalla scorsa settimana le cancellerie delle due potenze e i rispettivi capi di stato si sono scambiati gravi accuse dopo l’abbattimento del cacciabombaridere russo SU-24 da parte dell’aviazione turca nei pressi del confine siriano; dopo aver “consigliato” ai cittadini russi di non visitare la Turchia (nel 2014 sono stati più di 3 milioni) e aver arrestato alcuni imprenditori turchi, il presidente russo Vladimir Putin ha annunciato una serie di sanzioni commerciali mirate a danneggiare l’economia di Ankara, tra cui lo stop all’importazione di alcuni beni, il divieto ai tour operator di vendere viaggi verso la Turchia, la cancellazione di voli charter tra i due paesi e il reinserimento del visto d’ingresso; inoltre i lavoratori e le imprese turche che operano in territorio russo subiranno misure restrittive. Mosca è il secondo partner economico della Turchia e provvede al 60% del suo fabbisogno di gas; questo potrebbe essere il tallone d’Achille di Ankara, che ha già diretto il suo sguardo verso paesi come il Qatar, il Kurdistan iracheno e l’Azerbaijan, suo storico alleato, in particolar modo dopo che il ministro dell’energia russo ha annunciato la sospensione dei negoziati per la costruzione del Turkish Stream, il gasdotto che dovrebbe collegare Russia, Turchia e altri paesi europei. Nonostante la Russia stia attualmente vivendo un grave periodo di depressione economica (che le sanzioni verso la Turchia non possono che aggravare), Putin giova di un indice di gradimento superiore all’80%, soprattutto grazie agli istinti nazionalisti innescati dalle crisi internazionali come quella ucraina a quella siriana. Negli ultimi giorni i toni dei due presidenti si sono inaspriti; le autorità russe hanno accusato non solo la Turchia, ma lo stesso Erdogan e la sua famiglia di comprare il petrolio prodotto dalle raffinerie sotto il controllo di Daesh (il cosiddetto Stato Islamico) e ha annunciato di possederne le prove. Lo stesso ha fatto Erdogan, accusando la Russia di essere coinvolta nel commercio con i terroristi per mezzo di George Aswani, un uomo d’affari siriano che secondo il presidente turco sarebbe titolare di un passaporto russo e farebbe da intermediario tra i jihadisti e la Russia.
Accuse a parte, durante il discorso sullo stato della Nazione Putin ha affermato che la Turchia si pentirà dell’abbattimento dell’aereo, sottolineando che le sanzioni commerciali sono solo l’inizio di una serie di rappresaglie, che però, ha assicurato, non saranno di carattere militare. Intanto qualche esperto si chiede se questo peggioramento dei rapporti tra le due potenze non possa trasformarsi in una proxy war [guerra combattuta da due medie o grandi potenze attraverso scontri locali o regionali tra entità politiche dal potere molto limitato n.d.r.] nella regione caucasica, dove due piccole ex repubbliche sovietiche, l’Azerbaijan e l’Armenia, spalleggiate rispettivamente dalla Turchia e dalla Russia, sono protagoniste di un conflitto che si protrae sin dalla disgregazione dell’Unione Sovietica e vede al centro il Nagorno-Karabakh, una regione all’interno dell’Azerbaijan autoproclamatasi indipendente e la cui maggioranza degli abitanti è di etnia armena. La Russia ha alcune basi militari all’interno dei confini armeni, ma questo non trattiene l’Azerbaijan dall’effettuare periodicamente attacchi contro le forze armene. Secondo l’agenzia Stratfor ultimamente gli attacchi da parte dell’Azerbaijan sono aumentati. La rivalità tra Turchia e Armenia e l’alleanza tra quest’ultima e la Russia hanno origini lontane: nel diciannovesimo secolo l’Impero russo e quello ottomano si fronteggiavano militarmente, l’uno per avvicinare il proprio dominio verso le acque calde del Mediterraneo, l’altro per difendere la sua integrità territoriale. Alla vigilia della prima guerra mondiale ebbe luogo la celebre deportazione delle centinaia di migliaia di armeni dall’Anatolia orientale all’est della Siria (di solito ci si riferisce a questo evento con la parola “genocidio”) per decisione delle autorità ottomane; fu una scelta dettata dal pericoloso legame che le comunità armene, che ambivano all’indipendenza dagli ottomani, intrattenevano con l’Impero Russo e quello britannico. Un fronte interno, oltre a quello settentrionale (russi) e meridionale (inglesi), sarebbe stato disastroso, e fu quindi stabilito di deportare migliaia di persone senza però curarsi dell’altissimo numero di morti causate dalla fame, dall’assideramento e dalle violenze commesse dai militari curdi, che avevano il compito di scortarli.
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