Dal principale tasso di riferimento della Federal Reserve, il Federal funds rate, dipendono i tassi di interesse applicati dalle banche sui prestiti concessi ai loro clienti. Lo scorso 16 dicembre l’economista e politica statunitense Janet Yellen – presidente della Fed dal febbraio 2014 – ha annunciato il rialzo dei tassi di interesse della banca centrale USA dallo 0,25% al 0,5%.
La storia economica ci insegna che l’aumento e la riduzione dei tassi di interesse hanno delle conseguenze notevoli per l’economia di un paese, o addirittura per un’area economica più estesa se parliamo di un paese “trainante”. Un esempio concreto è rappresentato dal caso USA dei primi anni Ottanta. Quando nell’agosto 1979 Paul Volcker fu posto a capo della Fed dal presidente Carter, l’obiettivo dichiarato era quello di ridurre l’inflazione nel giro di tre anni, cercando di uscire da quella drammatica crisi degli anni Settanta legata a doppio filo alla fine del sistema monetario di Bretton Woods, a un gioco al rialzo dei prezzi del petrolio orchestrato dai paesi OPEC e all’esplosione delle tensioni accumulate nel dopoguerra. L’idea di Volcker fu la seguente: mantenere i tassi di interesse statunitensi su livelli elevati. Ciò potrebbe sembrare controproducente, e in effetti si verificarono conseguentemente due successive recessioni, con crollo della produzione e del reddito medio per famiglia (addirittura -10%) e aumento della disoccupazione (+11%), ma se si punta a contenere l’inflazione la mossa è assolutamente vincente. Il Volcker shock, non a caso così ribattezzato, mantenne l’inflazione al di sotto del 4%. L’alternativa per i governi era, ed è in ogni circostanza, stabilire tassi di interesse molto bassi, o comunque più contenuti. Ciò garantirebbe circolazione di denaro e scongiurerebbe il pericolo della recessione, ma in questo caso l’altra faccia della medaglia sarebbe rappresentata dalla svalutazione della divisa nazionale e dall’incalzare di un’inflazione imperante.
Tornando a tempi più recenti, l’ultimo aumento dei tassi di interesse statunitensi risaliva al 2006, antecedente dunque alla crisi finanziaria del 2008. Dalla crisi dei mutui subprime, infatti, il tasso era rimasto praticamente vicino allo zero, e si puntava alla circolazione di denaro, che i tassi di interesse più bassi garantiscono, per alleviare gli effetti della crisi riversando liquidità nel sistema economico. Il problema era ovviamente rappresentato dal rischio di innescare altre bolle speculative sui mercati finanziari.
Oggi invece la Yellen punta sul fatto che l’economia statunitense è in ripresa e sembra assolutamente in grado di procedere senza le misure straordinarie della banca centrale. L’obiettivo della Fed è quello di cominciare con un tasso dell’1,4% entro la fine del 2016, per poi superare il 3% nel 2018. Questa situazione comporterà però un aumento dei prestiti ipotecari e di molti crediti erogati negli USA e si assisterà all’inevitabile calo delle vendite che il Volcker shock ci racconta. Ma le conseguenze non riguarderanno solo le famiglie americane. Dopo il 2008 molti capitali erano stati investiti all’estero, alla ricerca di rendimenti più alti; ora, con l’aumento dei rendimenti degli investimenti, molte famiglie richiameranno in patria i loro capitali, e questo è un segnale certamente scoraggiante per alcuni paesi. Secondo la Bbc, come ben riportato dal giornalista Alessandro Lubello, l’inevitabile aumento del valore del dollaro comporterà l’abbandono di molti mercati asiatici ed europei.
Le conseguenze di questa manovra, dunque, sono ancora teoriche, e ci vorrà del tempo prima di poterne valutare (o, speriamo, apprezzare) la portata, ma certamente il 16 dicembre 2015 sarà considerato una data chiave che ha posto fine all’esperimento della Fed sui tassi di interesse minimi.