Erano undici anni che il prezzo del petrolio non si attestava su livelli così bassi. Il Brent – utilizzato assieme al West Texas Intermediate come benchmark mondiale per il mercato del greggio – lo scorso 6 gennaio ha perso il 4,2%, raggiungendo i prezzi del luglio 2004, i trentacinque dollari al barile. Il peggioramento delle relazioni tra Arabia Saudita ed Iran aveva provocato l’aumento temporaneo dei prezzi, accompagnato dal classico shock per l’inflazione generale che ne deriva, e aveva creato non pochi timori. I due paesi, tra i principali fornitori mondiali di petrolio e creatori dell’OPEC insieme ad Iraq, Kuwait e Venezuela nel 1960, hanno sempre avuto la libertà di aumentare in maniera quasi incontrollata il prezzo del petrolio, sfruttandone la scarsità di surrogati (totale fino a qualche decennio fa) che lo rende un prodotto praticamente unico: esso non risponde alle leggi del mercato e ai classici meccanismi dell’economia politica, e l’apprezzamento non ne contrae troppo la domanda. Inoltre gli oligarchi del Golfo Persico utilizzano l’elemento della condivisione culturale come mezzo di compattezza. Tuttavia il pessimismo dei mercati ha avuto la meglio, e gli investitori non credono che i membri OPEC riescano a trovare un accordo per fissare i prezzi
Ciò innanzitutto per la già richiamata rottura dei rapporti tra l’Iran e i principi sauditi, per cui sembra molto improbabile che i produttori concorrenti fissino un prezzo di comune accordo impedendo la svalutazione del petrolio. Il ritorno dell’Iran sui mercati globali, dopo anni di gravi sanzioni, garantirà una grande disponibilità di petrolio, a meno che i membri OPEC non stabiliscano una regolamentazione della produzione.
Un secondo elemento importante è rappresentato dai dati sull’economia cinese, poco incoraggianti visti gli ultimi ritmi, più deboli del previsto: la Cina è il più grande importatore di petrolio al mondo, e una riduzione della sua domanda potrebbe avere influenze incisive sul prezzo del greggio. Attualmente sembra di dover far fronte a un eccesso di offerta, e alcune analisi dello US Bancorp prevedono che un altro crollo dell’import cinese potrebbe ridurre ulteriormente il prezzo del petrolio fino a venticinque dollari al barile.
Il terzo fattore chiave, infine, è rappresentato dal dollaro. Nel 2015 la valuta nazionale USA ha registrato forti rialzi e, poiché il petrolio ha un prezzo ufficiale in dollari, l’apprezzamento della divisa americana rende il greggio più caro per gli acquirenti esteri; se questi ultimi tendono a comprarne meno, il prezzo continuerà a ridursi.
La Goldman Sachs stima che il prezzo del petrolio potrebbe scendere al di sotto dei venti dollari al barile, ma secondo molti analisti c’è da aspettarsi che il prezzo si stabilizzi nella seconda parte dell’anno.
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