Precisamente a tre anni di distanza dal secondo (“All the Lost Souls”), James Blunt pubblica il suo terzo album battezzandolo con un nome altrettanto enigmatico: “Some kind of Trouble”. E come per i lavori precedenti il titolo preannuncia ciò che sarà il tema fondamentale dell’intera opera: qualche specie di problema, qualcosa da dover risolvere, un nodo da sciogliere. Riconosciamo subito la voce di Blunt, cresciuta e maturata, sin dalla prima canzone “Stay The Night” (singolo che ha preceduto l’uscita dell’album), quel suo modo di cantare ansimante, quasi a tempo con i battiti del cuore. Per 40 minuti circa siamo catapultati in una marea di “troubles” (parola che ricorre molto spesso anche in diversi testi) che sembrano i nostri. Blunt ha avuto questa capacità, un po’ meno presente nel precedente lavoro, di scrivere canzoni quasi eteree, di difficile interpretazione ma che, d’altra parte, non hanno bisogno di ciò: è inutile arrovellarsi. Sono canzoni, testi ambigui che lasciano campo libero alla fantasia. È quasi un’esperienza in noi stessi, siamo noi i protagonisti, siamo noi ad indossare le parole e a vivere tra le note che ci trasportano negli angoli più profondi del nostro io. Le canzoni in sé non smettono mai di stupire, nessuna simile alla precedente o alla successiva, tutto movimentato da sorprese melodiche che stemperano quella malinconia che avvolge l’insieme. James Blunt non si smentisce e ci regala un terzo album maturo e profondo, come solo da lui potevamo aspettarcelo.
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