di Marco Chiappetta
TRAMA: 1823 – Durante una spedizione in Dakota, l’esploratore e cacciatore Hugh Glass (Leonardo DiCaprio), in fin di vita dopo essere stato brutalmente attaccato da un orso, viene abbandonato e dato per morto dal suo gruppo, per volere del perfido John Fitzgerald (Tom Hardy), che gli uccide il figlio (Forrest Goodluck) davanti ai suoi occhi mentre è in agonia. Sopravvissuto e animato da rabbia vendicativa, Glass si rimette sulle tracce del compagno che lo ha tradito, attraversando paesaggi sterminati, condizioni climatiche terribili, infinite sofferenze, mettendo alla prova il suo istinto di sopravvivenza in una natura ostile e magnifica.
GIUDIZIO: Basato parzialmente sul libro di Michael Punke, a sua volta ispirato dalla vera storia di Hugh Glass (già portata al cinema nel 1971, con “Uomo bianco va’ col tuo dio” di Richard C. Sarafian), il nuovo film di Alejandro Gonzàlez Iñarritu è una vetta di cinema puro, un racconto quasi interamente narrato con le sole immagini, i suoni, la musica, sguardi e paesaggi di infinita profondità. Trionfo definitivo dell’immagine sulla parola, tanto minimalista ed essenziale nel dialogo quanto ricco e complesso visivamente, è un’opera già classica, già capitale, che racconta l’uomo e il suo istinto di sopravvivenza, il suo odio, la sua violenza, confrontato a una natura non più selvaggia, non meno ostile, in cui il contrasto tra bellezza e orrore, tra sublime e grottesco, si fa pura poesia. Il regista messicano mette in scena questi alti temi con una regia a dir poco magnifica, in cui il piano-sequenza non è più fine esercizio di virtuosismo, come nel precedente e bellissimo “Birdman”, ma il mezzo più efficace per trasportare la realtà nel film e lo spettatore nella storia, scelta esemplare e da antologia nelle sequenze più belle del film: il prologo della battaglia con gli indiani, l’aggressione dell’orso (creato in digitale con enorme realismo), il cruento scontro finale tra Glass e Fitzgerald. Se la radice semantica di fotografia vuol dire “scrivere con la luce”, allora Emmanuel Lubezki è anch’egli autore e poeta a pari merito del regista suo connazionale: mai, tantomeno nel cinema digitale, i paesaggi, le luci, gli sguardi erano stati così belli e profondi, così struggenti e mozzafiato. La natura glaciale, inospitale, ostile e tremenda, ritrovata per i fini narrativi in Canada e in Patagonia, è tanto più meravigliosa perché l’occhio di Lubezki la cattura, la sintetizza, la sublima, senza ritocchi, ma usando solo la luce naturale, scelta inconsueta ma appagante che ha prolungato le estenuanti riprese per ben nove mesi facendo lievitare il budget previsto fino a 135 milioni di dollari. Western moderno, film d’avventura, dramma intimista, quest’opera è soprattutto cinema dello sguardo, dove i sovrumani silenzi e gli infiniti paesaggi sono materia d’arte e di racconto, da contemplare senza sosta. Ovvia l’influenza quindi del cinema di Terrence Malick, con cui Iñarritu condivide non solo il direttore della fotografia, ma anche temi (l’uomo e la natura), accortezze stilistiche (la controluce, le carrellate in steadicam) e scelte narrative (la dolente voce fuori campo, i fantasmi e i ricordi del passato), che fanno di questo film un’opera profonda e spirituale, emozionante e visionaria, in cui il plot della vendetta passa in secondo piano, tanto è entusiasmante e viscerale la sola esperienza visiva. La splendida musica di Ryuichi Sakamoto e Alva Noto costruisce coi paesaggi un connubio straordinario, ma il film è anche (e forse soprattutto) il tour de force di Leonardo DiCaprio, in un’interpretazione estrema e difficilissima, moribondo e muto per quasi tutto il film, capace di comunicare solo con gli occhi, invitando a un’immedesimazione totale e sofferta dello spettatore. Gli fa da antagonista un brutale e feroce Tom Hardy, esposto anche lui oltre la barriera del personaggio. Tutto qui è in stato di grazia, cinema all’ennesima potenza, cinema come deve essere. Capolavoro assoluto.
VOTO: 5/5