di Gabriele Borghese
Il libro di Antonio D’Andrea (costituzionalista, ordinario di Diritto Pubblico all’Università di Brescia), L’azzardo costituzionale (Edizioni Conoscenza, 2016) mette a fuoco la nuova fisiologia istituzionale che potrebbe delinearsi con l’approvazione della riforma costituzionale. Saranno i cittadini a decidere se approvare o no questa riforma, attraverso il prossimo referendum, la cui data è però ancora ignota.
Il primo capitolo del libro ricostruisce i mutamenti costituzionali e il contesto politico e storico più recenti. Sono riportate le ultime riforme elettorali e i gli ultimi referendum in materia. Viene poi descritta, nel secondo capitolo del libro, la struttura del nuovo Senato, che diventerà una sorta di camera delle regioni. Senato che sarà composto da 95 consiglieri regionali (nessuna Regione potrà avere senatori inferiori a 2) e 5 nominati dal Capo dello Stato. I 95 senatori resteranno in carica fin quando dura il loro mandato di consiglieri regionali. Eserciteranno le loro funzioni senza vincolo di mandato, godranno delle immunità riconosciute ai deputati ma non riceveranno alcuna indennità (escluse le spese di trasferta).
Ruolo e funzioni del Senato. Il tentativo è quello di superare il bicameralismo perfetto ed evitare che il Senato sia un ‘’doppione’’ della Camera dei Deputati. Il nuovo Senato è estromesso dal circuito fiduciario che coinvolgerà solo Governo e Camera dei Deputati. Si mantiene l’obbligo del vaglio bicamerale per: la revisione della costituzione e l’approvazione delle altre leggi costituzionali; la tutela delle minoranze linguistiche; la disciplina dei referendum e dei meccanismi per l’elezione del Senato; la disciplina degli organi di governo e delle funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città Metropolitane, nonché le modalità con le quali l’Italia partecipa alla formazione e all’attuazione della normativa dell’UE). Una volta intervenuta la deliberazione della Camera, il Senato può opporre (entro 10 gg. e su richiesta di un terzo dei senatori) modifiche, ma non può respingere completamente il testo. La Camera a maggioranza assoluta può comunque distaccarsi da quanto stabilito in Senato. L’Esecutivo potrà esercitare una certa pressione sulla Camera grazie all’introduzione del “voto a data certa”, che va ad aggiungersi alla questione di fiducia.
Per ciò che riguarda le leggi costituzionali è poi introdotto il controllo preventivo di costituzionalità, per evitare che una legge sia approvata e successivamente giudicata incostituzionale e dunque illegittima, come è già avvenuto ad esempio nel caso del c.d. Porcellum.
Viene abolito anche il CNEL, organo ausiliario contemplato dall’articolo 99 della Costituzione.
La questione dell’autonomia regionale. Il terzo capitolo, intitolato La demolizione dell’autonomia regionale analizza la questione forse più spinosa della riforma, cioè il potere del Governo di intervenire in materie precedentemente sotto competenza delle Regioni. Scrive l’autore: “A tal proposito si parte dalla riformulazione dell’art. 117 Cost. e si sopprime la c.d. potestà legislativa concorrente spettante alle Regioni (che restano nominalmente titolari della c.d. potestà legislativa residuale esclusiva), sottraendo al legislatore regionale e trasferendo a quello statale materie che oggi ricadono nella prevalente competenza dei Consigli regionali (dall’ordinamento delle professioni, al sistema di protezione civile, dalla produzione dell’energia al sistema di trasporto, navigazione, ai porti e agli aeroporti civili)”. D’Andrea non esita a definire “schizofrenico” l’atteggiamento del legislatore in materia di autonomia regionale, in quanto si passa da un modello di ispirazione “federalista” ad uno “centralista”. Sostanzialmente si afferma la preminenza della politica legislativa nazionale su quella regionale e locale. La definitiva conferma di questa scelta è nell’articolo 31 della riforma che va a modificare l’articolo 117 della Costituzione.
Come chiarisce bene l’autore: “Su proposta del Governo la legge statale – non ricompresa tra le categorie delle c.d. leggi bicamerali – può sempre intervenire in materie di spettanza regionale, le quali dunque non vengono riservate alla legislazione esclusiva dello Stato, “quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale” (dalle eventuali modificazioni proposte dal nuovo Senato a maggioranza assoluta, la Camera potrà discostarsi raggiungendo a sua volta la maggioranza assoluta)”.
Premier e legge elettorale. Il quarto capitolo del libro analizza l’intreccio che potrebbe determinarsi tra riforma costituzionale e legge elettorale. Per assicurare la governabilità si è infatti arrivati ad approvare il c.d. Italicum (legge n. 52 del 2015) che prevede un premio di maggioranza consistente per la lista che arriva ad ottenere almeno il 40 per cento dei voti. Nel caso in cui non si riuscisse ad arrivare a tale risultato è predisposto un secondo turno di ballottaggio tra le due liste più votate alla prima tornata. Questo il commento di D’Andrea: “Senza dunque voler minimamente aprire il fronte delle obiezioni di natura costituzionale nella loro più classica accezione, che pure potrebbero essere mosse alla legge n. 52 del 2015 e che attengono, essenzialmente, alla evidente manipolazione della rappresentanza parlamentare imposta non già per favorire ma piuttosto per determinare obtorto collo la formazione di una maggioranza di governo (da questo punto di vista mi sembrerebbero disattese le indicazioni fornite al legislatore dal giudice costituzionale con la citata sentenza), ho la netta impressione che si sottovaluti lo scarto che comunque è destinato a permanere tra la nuova normativa costituzionale e la nuova legge elettorale”.
In conclusione, dopo tanti anni di “stallo” in materia di riforme, è bene accettare questa legge con tutti i limiti che contiene? La risposta negativa dell’autore a questa domanda è così argomentata: “Se in linea di principio non si può che essere d’accordo con il Presidente Mattarella, che recentemente e in più di una circostanza ha insistito sulla necessità che la Repubblica deve sapersi rinnovare ed essere efficiente nel produrre decisioni che competono ai pubblici poteri, non sembra tuttavia essere quella promossa con determinazione dal Governo Renzi la strada da seguire. A meno che non ci si voglia accontentare di un rinnovamento dall’evidente sapore demagogico e forse persino di una rozza involuzione democratica. Tuttavia, ai tanti disorientati dalla perdurante inconsistenza della classe politica, dopo aver a lungo sentito parlare di nuovi orizzonti da inseguire per modernizzare le nostre istituzioni, potrebbe paradossalmente sembrare desiderabile persino una qualsiasi riforma piuttosto che nessuna riforma. Questo sarebbe uno strano e pericoloso modo di ragionare, che andrebbe nei limiti del possibile scongiurato servendosi esclusivamente di argomentazioni di ‘tono costituzionale’, le uniche che in verità si dovrebbero utilizzare in questi casi”.
L’appello per il ‘’NO’’ di 56 costituzionalisti. In Appendice al libro è contenuto l’appello per il “NO” di 56 costituzionalisti (tra i firmatari docenti, magistrati, studiosi e studiose di diritto costituzionale).
“Non siamo fra coloro che indicano questa riforma come l’anticamera di uno stravolgimento totale dei principi della nostra Costituzione e di una sorta di nuovo autoritarismo.
Siamo però preoccupati che un processo di riforma, pur originato da condivisibili intenti di miglioramento della funzionalità delle nostre istituzioni, si sia tradotto infine, per i contenuti ad esso dati e per le modalità del suo esame e della sua approvazione parlamentare, nonché della sua presentazione al pubblico in vista del voto popolare, in una potenziale fonte di nuove disfunzioni del sistema istituzionale e nell’appannamento di alcuni dei criteri portanti dell’impianto e dello spirito della Costituzione”.
In sintesi, si riportano le ragioni del “NO” portate avanti dai costituzionalisti firmatari, raccolte in 7 punti.
1) La legge proviene dal Governo più che dal Parlamento. Una riforma della costituzione invece dovrebbe essere il frutto di un maturo confronto fra le forze politiche ad ampio spettro.
2) La Camera ha avuto poteri in modo incoerente e sbagliato: Invece di dare vita a una seconda Camera che sia reale espressione delle istituzioni regionali, dotata dei poteri necessari per realizzare un vero dialogo e confronto fra rappresentanza nazionale e rappresentanze regionali sui temi che le coinvolgono, si è configurato un Senato estremamente indebolito, privo delle funzioni essenziali per realizzare un vero regionalismo cooperativo: esso non avrebbe infatti poteri effettivi nell’approvazione di molte delle leggi più rilevanti per l’assetto regionalistico, né funzioni che ne facciano un valido strumento di concertazione fra Stato e Regioni.
3) Rischi di incertezze e conflitti tra Camera e Senato
4) L’assetto regionale della Repubblica uscirebbe da questa riforma fortemente indebolito attraverso un riparto di competenze che alle Regioni toglierebbe quasi ogni spazio di competenza legislativa, facendone organismi privi di reale autonomia, e senza garantire adeguatamente i loro poteri e le loro responsabilità anche sul piano finanziario e fiscale (mentre si lascia intatto l’ordinamento delle sole Regioni speciali).
5) Il progetto è mosso anche dal dichiarato intento (espresso addirittura nel titolo della legge) di contenere i costi di funzionamento delle istituzioni. Ma il buon funzionamento delle istituzioni non è prima di tutto un problema di costi legati al numero di persone investite di cariche pubbliche (costi sui quali invece è giusto intervenire, come solo in parte si è fatto finora, attraverso la legislazione ordinaria), bensì di equilibrio fra organi diversi, e di potenziamento, non di indebolimento, delle rappresentanze elettive.
6) Sarebbe ingiusto disconoscere che nel progetto vi siano anche previsioni normative che meritano di essere guardate con favore: tali la restrizione del potere del Governo di adottare decreti legge, e la contestuale previsione di tempi certi per il voto della Camera sui progetti del Governo che ne caratterizzano l’indirizzo politico; la previsione (che peraltro in alcuni di noi suscita perplessità) della possibilità di sottoporre in via preventiva alla Corte costituzionale le leggi elettorali, così che non si rischi di andare a votare (come è successo nel 2008 e nel 2013) sulla base di una legge incostituzionale; la promessa di una nuova legge costituzionale (rinviata peraltro ad un indeterminato futuro) che preveda referendum propositivi e di indirizzo e altre forme di consultazione popolare.
7) Tuttavia questi aspetti positivi non sono tali da compensare gli aspetti critici di cui si è detto. Inoltre, se il referendum fosse indetto – come oggi si prevede – su un unico quesito, di approvazione o no dell’intera riforma, l’elettore sarebbe costretto a un voto unico su un testo non omogeneo, facendo prevalere, in un senso o nell’altro, ragioni “politiche” estranee al merito della legge. Diversamente avverrebbe se si desse la possibilità di votare separatamente sui singoli grandi temi in esso affrontati (così come se si fosse scomposta la riforma in più progetti, approvati dal Parlamento separatamente). Per tutti i motivi esposti, pur essendo noi convinti dell’opportunità di interventi riformatori che investano l’attuale bicameralismo e i rapporti fra Stato e Regioni, l’orientamento che esprimiamo è contrario, nel merito, a questo testo di riforma.