di Marco Chiappetta
TRAMA: 1919. Reduce traumatizzato della Grande Guerra, il giovane francese Adrien Rivoire (Pierre Niney) si reca sino a un remoto villaggio tedesco per porre dei fiori sulla tomba di un soldato tedesco caduto, Frantz Hoffmeister (Anton von Lucke), attirando l’attenzione della sua fidanzata Anna (Paula Beer) e dei genitori Hans (Ernst Stotzner) e Magda (Marie Gruber), a cui si presenta come un caro amico del defunto. Accolto come un figlio, dopo un’iniziale diffidenza, Adrien entra nei loro cuori ma non riesce a liberarsi di un segreto indicibile e doloroso.
GIUDIZIO: Liberamente ispirato a un misconosciuto e bellissimo film di Ernst Lubitsch, “L’uomo che ho ucciso” (1932), a sua volta tratto da una pièce di Maurice Rostand, il film di François Ozon aggiunge al dramma originale (unicamente ambientato in Germania) un secondo atto francese di stampo sentimentale, usando al meglio ingredienti tipici del cinema melodrammatico classico, come una musica portentosa (del sempre eccelso Philippe Rombi), attori intensissimi (straordinario Pierre Niney, sorprendente Paula Beer premiata a Venezia come miglior attrice emergente) e soprattutto, per restare in contatto con l’epoca e il mito di Lubitsch, la scelta più etica che estetica del bianconero (ad opera dell’ottimo direttore della fotografia Pascal Marti) che pur si apre a momenti di colore di spiazzante bellezza, in caso di sogno, flashback, un’improvvisa gioia e vitalità. Anche se il soggetto non è originale, il tocco di Ozon si riconosce subito: delicato, poetico, dolente, struggente. Il suo manierismo non è gratuito né compiaciuto, è solo un mezzo, per raccontare una storia già detta che valeva la pena rifare e rivedere in modo diverso. La storia tiene, il colpo di scena seppur intuibile è di grande forza, l’emozione è sostenuta ma sempre presente. Tra remoti villaggi teutonici, stazioni di treni, duetti di violino e pianoforte, il bravissimo regista francese ci trasporta in un’altra epoca e ci fa sentire, attraverso personaggi di commovente umanità, le ferite postume della guerra, che tutto distrugge e uccide, anche chi vi è sopravvissuto o non vi ha partecipato affatto, facendone una parabola cupa, dolorosa, cristiana nel senso buono e umanista del termine.
VOTO: 3,5/5