di Marco Passero
“Con un’espressione sintetica si può dire che il cinema ci ha permesso di vedere l’invisibile”. Con queste parole il regista e divulgatore scientifico italiano, Virgilio Tosi, ha esaltato la bellezza della settima arte, un’arte senza confini e senza tempo. L’espressione settima arte si deve invece al critico Ricciotto Canudo, che nel 1921 la coniò considerando il cinema la perfetta sintesi tra l’estensione spaziale e la dimensione temporale, in aggiunta alle altre arti, vale a dire architettura, musica, pittura, scultura, poesia, danza. L’importanza e lo spessore di queste idee sembrano purtroppo venire meno con alcuni “prodotti” del cinema contemporaneo, primo fra tutti il cinepanettone.
Questo neologismo viene utilizzato, spesso con una connotazione negativa, per indicare la commedia natalizia con una certa tendenza a ripetersi nelle situazioni messe in scena, e con determinate caratteristiche: temi frivoli, comicità a buon mercato che sfocia fin troppo facilmente in un eccesso di volgarità gratuite, e, almeno fino a qualche anno fa, ottimi incassi ai botteghini.
Attorno ai cinepanettoni c’è un dibattito continuo, ma buona parte della critica è concorde nel condannare questo tipo di commedia che, a prescindere dagli incassi (comunque calati), rischierebbe di “uccidere” l’arte cinematografica.
La morte del cinema in questo caso sarebbe rappresentata dalla decisione dei registi, condizionati dalle statistiche sugli incassi, di virare su prodotti di dubbio gusto, senza la minima traccia di riferimenti artistici e culturali di rilievo, sprofondando nel baratro dal punto di vista qualitativo.
Qualcuno ha provato a difendere il cinepanettone con argomentazioni che vanno dalla capacità di portare al cinema le famiglie al merito di costituire un passatempo leggero, tanto che l’espressione non avrebbe più un tono così polemico. Ma la questione, probabilmente, ruota proprio intorno alla concezione che si ha del cinema. Secondo una certa visione infatti, il cinema è arte, poesia, rappresentazione della realtà nelle sue sfaccettature, e in alcune sfumature che altrimenti sarebbero impalpabili; l’artista, che sia egli alla direzione o sotto i riflettori, non dovrebbe cercare esclusivamente una collocazione sul mercato limitandosi a offrire una “compagnia” a un pubblico dal palato frettoloso, poco esigente, per nulla raffinato.
In questa prospettiva, il cinepanettone non reggerebbe neanche l’ardito confronto con la classica commedia all’italiana, ben lontana dal mettere in scena in maniera semplicistica ruoli stereotipati (uomini distratti e infantili e donne stupide ma procaci) all’interno dei soliti episodi di vacanze costose con l’amante e tradimenti smascherati.
Per anni il pubblico si è trovato di fronte a battute scontate, doppi sensi fin troppo diretti più che allusivi, ed “esibizioni” di volti televisivi noti che, seppur chiamati in causa spesso soltanto per ruoli da comprimari, dovrebbero avere capacità recitative adeguate per stare sul grande schermo; questo successo ha poi spinto a continuare a lavorare in questa direzione, confezionando, è proprio il caso di dirlo, un prodotto per le feste al centro di polemiche senza fine.
Oggi, dopo il periodo d’oro tra la fine degli anni novanta e i primi anni duemila, il cinepanettone sembra incontrare più detrattori che sostenitori, e tutto ciò ha i suoi effetti sugli incassi. Forse ci si è resi conto che la tristezza della risata forzata e della spensieratezza a tutti i costi non è l’unica cosa di cui hanno bisogno gli spettatori e l’arte cinematografica stessa, capace di offrire (capo)lavori che vanno ben oltre la parentesi di un intrattenimento vuoto, da dimenticare subito dopo i titoli di coda.