di Marco Passero
Utopia (“Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia”) è un romanzo di Tommaso Moro, pubblicato nel 1516 e composto l’anno precedente ad Anversa. Il titolo è un neologismo, una parola nuova e moderna coniata a partire da due termini del greco antico: τóπος (tópos) è il “luogo”, οὐ significa “non”, dunque luogo inesistente o immaginario; molti ritengono invece che, a partire dal prefisso ευ– che significa bene, il vero significato sia “ottimo luogo”. È probabile comunque che proprio questa ambiguità fosse nelle intenzioni dell’autore e che la vera accezione del termine possa derivare da una congiunzione delle due idee, cioè “l’ottimo luogo che non è in alcun luogo, che non esiste”.
Con l’opera Moro propone una nuova idea di agire politico, basato sulla giustizia sociale e sul retto vivere civile. Immaginando una fittizia isola-regno, una societas perfecta («non esiste luogo al mondo dove ci siano persone migliori, né repubblica più fiorente» […]), egli presenta la finzione di una comunità capace di darsi poche ma semplici regole opposte ai processi di sviluppo vigenti nella società del tempo.
Il protagonista del romanzo è Raffaele Itlodeo (raccontatore di bugie) presentato come un navigatore accorto come Ulisse, e capace di penetrante speculazione come Platone. È un viaggiatore-filosofo che è stato a lungo al fianco di Amerigo Vespucci nei suoi viaggi, dunque Moro colloca l’Utopia al confine tra realtà storica e invenzione, in un gioco tra verità e fantasia. Si pensi che i viaggi di Amerigo Vespucci erano al tempo di Moro al centro dell’attenzione di tutta l’Europa grazie alla relazione che lo stesso esploratore genovese aveva steso nel 1504.
Nel primo libro Moro immagina un dialogo con il protagonista, centrato sulla situazione politica e sociale dell’Europa del tempo e dell’Inghilterra in particolare. Si tratta di un’Inghilterra profondamente turbata da trasformazioni sociali, come le enclosures, recinzioni che stabilivano l’appropriazione privata dei terreni e che colpirono pesantemente contadini abituati da secoli alla “proprietà comune”; nel secondo libro Itlodeo discorre ancora e minuziosamente dell’isola, elencando tutte le sue “buone leggi” e analizzando abitudini e usanze dei suoi abitanti. Si sofferma su una descrizione dettagliata del luogo, sugli aspetti riguardanti la sua natura, ma anche la geografia dell’urbano, e dunque costruzioni e modifiche a opera dell’uomo: racconta delle città, e in particolare della capitale, Amauroto, di figure di spicco come quelle dei magistrati (e di qui una serie di riflessioni sull’organizzazione giuridica), dei mestieri, dei rapporti sociali, dei viaggi degli utopiani, riflette sulla figura degli schiavi e sul loro ruolo nella società, loda il rifiuto categorico della guerra in tutte le sue forme e conclude con una digressione sulla religione degli abitanti di Utopia.
L’idea, senz’altro geniale, che aprirà ulteriormente la strada a un genere letterario nel quale l’unico precedente era rappresentato da “La Repubblica” di Platone (IV secolo a.C.), è proprio quella di usare lo spazio letterario per muovere una critica alla società contemporanea, in particolare con una sottile e sferzante satira contro l’Inghilterra del XVI secolo, contro i suoi difetti e le sue contraddizioni, ad esempio le centinaia di contadini costretti alla delinquenza a causa della disoccupazione mentre prati immensi sono lasciati al pascolo di poche pecore.
Moro conclude il romanzo con la flebile speranza che molte delle caratteristiche, degli usi e delle ammirevoli tradizioni dell’isola di Utopia siano introdotte nei vari paesi, speranza ovviamente destinata a rimanere tale, solo una provocazione.