di Marco Chiappetta
TRAMA: Quando 12 astronavi a forma ovoidale atterrano in altrettanti luoghi della Terra, la linguista Louise Banks (Amy Adams) viene ingaggiata dal colonnello Weber (Forest Whitaker) dell’esercito americano per decifrare il linguaggio e capire le intenzioni degli alieni, chiamati eptapodi (con otto piedi) e simili a molluschi giganti, stanziatisi con il loro “guscio” anche nelle campagne del Montana. Mentre il resto del mondo ha fretta di passare alle armi e scacciare gli invasori, Louise, insieme al fisico matematico Ian Donnelly (Jeremy Renner), scopre un singolare modo di comunicazione scritta e visiva con queste creature, alla ricerca di una risposta che spieghi il loro misterioso arrivo e il destino dell’umanità.
GIUDIZIO: Sotto le vesti di un film di fantascienza, peraltro poco spettacolare e per nulla fracassone, e col pretesto di un non nuovo incipit (l’invasione aliena), l’ottavo film di Denis Villeneuve è una straziante, poetica, sublime favola sull’umanità, sui concetti di destino e di tempo, sulla vita tutta e sul nostro ruolo nel mondo, ma anche un’allegoria della nostra barbarica epoca attuale, tesa, chiusa al diverso e istericamente votata alla distruzione, nuovo medioevo da cui si può uscire solo con la cultura e il dialogo. Scritto benissimo (da Eric Heisserer che ha adattato un fortunato racconto di Ted Chiang, “Storia della tua vita”), è messo in scena addirittura divinamente, con il proverbiale tocco à la Villeneuve, sobrio, misurato, ipnotico, carico di tensione e pathos a ogni scena, quasi fatalista per come anticipa e suggerisce sempre ciò che viene dopo, capace di immergere lo spettatore in un’atmosfera rarefatta di emozioni e percezioni recondite quanto abissali, sorprese fulminanti e brividi fortissimi. Fatalista qui è anche il vero e proprio soggetto del film, che apre a una visione commovente e difficilmente dimenticabile dell’esistenza umana, un inno alla vita e all’amor fati, che comprende l’accettazione del proprio destino (e dell’inevitabile sofferenza), la rassegnazione alla fragilità della nostra razza e la consapevolezza della non linearità del tempo: passato, presente e futuro si confondono in un unico flusso di coscienza della memoria, una massa caotica e meravigliosa chiamata vita, giostra di gioia e dolore, ma meritevole di essere vissuta comunque. Il flashback è un flashforward e viceversa. L’eterno ritorno di Nietzsche è solo una delle varie interpretazioni che Villeneuve, intimo amico dell’ambiguità e del non detto, suggerisce, mentre cinematograficamente alti e facilmente riconoscibili sono i suoi riferimenti: “2001: Odissea nello spazio” di Kubrick (con l’astronave ovoidale che sostituisce il monolite nero, e ancora il discorso nietzscheano sul tempo) e “Incontri ravvicinati del terzo tipo” di Spielberg (gli “ospiti” alieni buoni e pacifici, qui umanissimi anche se si vedono solo le otto gambe, anche solo con il loro linguaggio a cerchi di inchiostro), mentre il paragone con “Interstellar” di Nolan, ben più confuso e spettacoloso, non può reggersi solo sulla base del tema del viaggio nel tempo.
Nelle mani fatate di questo autore straordinario ogni inquadratura, ogni movimento di camera, si fa poesia, elemento portatore di dramma e catarsi al tempo stesso, di un concetto di umanità altissimo. La sequenza d’apertura, crocevia di vita e morte, gioia e dolore, è già un capolavoro di sintesi cinematografica, che apre a un film intimista e monumentale a un tempo, fatto di numerose letture e sottotracce, che infine confluiscono in un finale struggente che ne dà il senso e il sigillo di bellezza. La fotografia cupa e sporca di Bradford Young e la vibrante colonna sonora di Jòhann Jòhansson (a cui si aggiunge lo straziante pezzo di Max Richter “On The Nature Of Daylight”, che apre e chiude il film) creano l’atmosfera di un film unico, ma su tutto trionfa l’interpretazione straordinaria e dolente di Amy Adams, capace, a detta dello stesso regista, di “incarnare una cosa e al contempo riuscire a dire e far accadere qualcos’altro”.
VOTO: 4/5