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“La La Land”, anatomia di un film perfetto

locandinadi Marco Chiappetta

TRAMA: Los Angeles – Quando Mia (Emma Stone), aspirante attrice frustrata da provini sempre fallimentari, incontra il pianista jazz Sebastian (Ryan Gosling), a sua volta scontento di mortificare il suo talento nella banalità e desideroso di aprire un club tutto suo, è evidente che ci sia di mezzo il destino: uniti dalla comune voglia di riscatto, dalle ambizioni di gloria e da un talento inespresso, i due si supportano l’un l’altro vivendo un amore grande quasi quanto i loro sogni.
GIUDIZIO: Omaggio sentito e dichiarato ai musical anni ’50 e ’60, il terzo film di Damien Chazelle (1985) è quello della sua consacrazione. La sua grandezza è nel trascendere il semplice manierismo cinefilo e citazionista, il proverbiale gioco del cinema nel cinema (e per il cinema), non solo per reinventare un genere – con invenzioni visive, cromatismi impossibili, coreografie da sogno, musiche uniche e indimenticabili – ma per raccontare, tramite uno stile virtuoso, poetico, leggero come l’aria, una storia d’amore tra “diversi ma uguali” e un universo (quello frustrante e luccicante dello show business), non nuovi certo, ma messi in scena con una tale chiarezza d’intenti, una simile ricerca (compiuta) della bellezza, un’armonia così perfetta da lasciare senza parole, rapiti e incantati.
Non c’è un solo momento di questo film che non sia emozione: qui diverte, qua sorprende, là commuove, cinema allo stato puro. Come in una sinfonia, ogni strumento dell’orchestra è affiatato e diretto con maestria: la coppia di attori Emma Stone e Ryan Gosling, bellissimi, bravissimi, in sintonia celestiale sia che ballino, cantino, suonino, recitino, vivano; lo sfoggio cromatico ottenuto dalla combinazione di costumi (Mary Zophres) e scenografie (David Wasco, Sandy Reynolds-Wasco), favolistiche e oniriche; la fotografia di Linus Sandgren, con movimenti acrobatici, luci e colori che si spengono e si accendono, e uno sguardo vintage e volutamente artificioso su Los Angeles, città dei sogni e delle stelle, che la fa apparire come il luogo più romantico dell’universo (potere del cinema). E poi, soprattutto, ovviamente, le musiche: il lavoro del compositore Justin Hurwitz, coadiuvato dai testi di Benj Pasek e Justin Paul, coniuga leggerezza e malinconia, esuberanza e poesia, toccando le note giuste che sciolgono il cuore. Sono canzoni indimenticabili, scritte, cantate, coreografate per diventare immortali.
Quello di Damien Chazelle è più che un film, più che un capolavoro: è una lezione di cinema totale, dalla tecnica all’inventiva, alla capacità prodigiosa di emozionare in modo sottile, sottocutaneo, mai invadente e mai retorico, come dimostra l’uso del leitmotiv che lega ogni incontro tra i due amanti, elogio dell’immagine e della musica come linguaggio universale, rapido e sublime dei sentimenti umani. Che il fondo sia frivolo, che non ci sia realismo, che la trama sia esile sono in effetti le credenziali del musical perfetto, ma Chazelle sorprende in personalità anche per il disincantato cinismo con cui descrive la fatica del fallimento e la solitudine del successo, a cui fa da collante un amore tanto puro quanto impossibile, e che nonostante l’evidente finzione risulta verissimo.
Le scene d’antologia si susseguono una dopo l’altra, dal geniale prologo sulla highway losangelina (mezza citazione dell’inizio di “8½”), alla strepitosa scena del primo bacio all’osservatorio astronomico, sino a un finale mozzafiato e struggente (una suite musicale degna di Vincente Minnelli) che conclude il film su una nota amara, ma per nulla stonata, che non può che richiamare alla mente l’epilogo funesto di “Les parapluies de Cherbourg” di Jacques Demy, senza dubbio il principale modello di riferimento di Chazelle. Del resto la passione per la musica (in particolare il jazz) di questo straordinario autore prodigio, già evidente nel precedente, straordinario “Whiplash” (2014), è anche qui motore di una macchina spettacolare assolutamente perfetta, un capolavoro nella miglior tradizione hollywoodiana, pregno di un romanticismo oggi disgraziatamente demodé, che però proprio come il jazz, per parafrasare una battuta pronunciata dal personaggio di John Legend, prende dal passato per guardare al futuro.
“La La Land” non è un film moderno. È già un classico.
VOTO: 5/5