di Marco Passero
La guerra è una forma altamente complessa e dinamica di conflitto sociale. Ogni contributo che si proponga di discutere di guerra e violenza da una prospettiva sociologica deve fare i conti con un importante ostacolo: da una parte, anche se esiste una vasta letteratura in materia, vi è una significativa mancanza di un terreno sociologico di base per l’argomento; dall’altra la sociologia mainstream mostra scarso interesse nello studio della guerra e della violenza organizzata.
Il rapporto tra la dimensione umana e quella relativa a guerra e violenza è complesso e paradossale. Da una parte esiste una ferma condanna universale degli atti violenti, confermata dai sistemi legali e dalle proibizioni normative diffuse in tutto il mondo circa il ricorso al danno fisico contro altri esseri umani, ma dall’altra c’è una cultura popolare che, a trecentosessanta gradi, trasmette immagini, propone strumenti e veicola messaggi di violenza.
Se pensiamo all’epoca moderna, formalmente si condanna qualsiasi forma di violenza, ma in realtà essa genera e continuamente rigenera più distruzione di qualsiasi altra epoca storica.
Questa ambivalenza risale al rapporto dicotomico tra il pessimismo di Machiavelli e Hobbes e l’ottimismo di Rousseau e Kant, ovvero tra l’ideale dell’homo homini lupus in un contesto di bellum contra omnes e l’idea opposta di pacifismo, ragionevolezza e compassione come elementi caratterizzanti la natura umana. Secondo la prima prospettiva la società è quindi il garante esterno di un ordine necessario per superare un bellicoso e brutale stato di natura, mentre per la seconda prospettiva la società moderna è la prima responsabile della corruzione dell’essenziale bontà della natura umana.
Si può sicuramente affermare, d’accordo con il sociologo Siniša Malešević, che la guerra “tutti contro tutti” è una impossibilità empirica: la violenza non si palesa a livello individuale, non è aggressività innata, ma richiede coordinazione collettiva e un’intensiva azione sociale. Pertanto per capire la guerra occorre comprendere la dimensione del sociale.
Ma se gli esseri umani sono essenzialmente diffidenti nell’usare la violenza e poco propensi a essere violenti, perché la violenza e la guerra sono così drammaticamente incrementati, specie nell’età moderna? Per rispondere a questo interrogativo così centrale occorrerebbe focalizzarsi sul ruolo dell’organizzazione sociale e dell’ideologia nell’incoraggiare la partecipazione delle masse ad atti violenti su larga scala. Qualsiasi violenza collettiva di lunga durata – specie se pensiamo a conflitti su larga scala come le guerre – implica due “ingredienti”: una capacità organizzativa complessa e strutturale e una potente ideologia legittimante, ovvero il complesso e universale processo sociale attraverso il quale gli attori umani articolano le loro azioni e credenze. Questi due elementi sono capaci di influenzare qualsiasi aspetto possa emergere da un’analisi sociologica della guerra e della violenza, dai nazionalismi alla propaganda, dalle geografie di guerra al gendering of war.