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“Moonlight”, racconto di formazione di un nero gay povero (e altri cliché)

locandinadi Marco Chiappetta

TRAMA: Miami – Il piccolo Chiron (Alex Hibbert), nero, probabilmente gay, vittima di bullismo, con una madre tossica e disagiata, Paula (Naomie Harris), trova nello spacciatore Juan (Mahershala Ali) il padre e mentore che gli manca. Adolescente (Ashton Sanders), continua a essere preda dei bulli e scopre una profonda attrazione sessuale per il suo amico Kevin (Jharrel Jerome), ma da grande (Trevante Rhodes), diventato a sua volta spacciatore, la sua identità sessuale è ancora problematica e sofferente, e un nuovo incontro con Kevin (André Holland) può finalmente rivelargli qualcosa di più.
GIUDIZIO: Secondo film di Barry Jenkins (1979), tratto da una pièce di Tarell Alvin McCraney (“In Moonlight Black Boys Look Blue”) che lo ha co-sceneggiato, è, aldilà dei suoi indubbi meriti di buona fattura estetica (seppur manierista), un dramma ordinario, capace di accumulare uno dopo l’altro tutti i cliché del cinema hollywoodiano più furbo e scorretto: l’omosessualità, l’identità nera, il racconto di formazione, l’ambiente degradato periferico dominato da droga e criminalità, l’emarginazione del diverso, il bullismo scolastico, la madre tossica disagiata, la ricerca di un padre putativo/mentore. Scontato e convenzionale persino nella linearità narrativa, ormai irripetibile dopo l’esperimento geniale di “Boyhood” di Richard Linklater (un Autore, sì, capace di raccontare il tempo, la crescita e la gioventù), il film si concentra però soprattutto sull’aspetto dell’omosessualità, prima girandoci attorno, poi entrandoci dentro, fino a divenire il solo, fragile perno chiamato a reggere tutto il film. La formazione del protagonista, la sua crescita, sono quindi raccontate soltanto attraverso la chiave sessuale: il tema è certo trattato con delicatezza, sobrietà, conoscenza della materia, ma non sempre in maniera convincente, tanto che è difficile decifrare se la sua attrazione per il miglior amico sia semplice scoperta sessuale o amore. Il regista è certamente abile (e furbo) a infondere a tutti i tre capitoli della storia un sentire e un’atmosfera comune, grazie a tre attori diversi ma simili, una fotografia (James Laxton) sempre pulita e impeccabile in perfetto stile hipster (così come il chirurgico montaggio), e una musica (Nicholas Britell) bellissima e indubbiamente evocativa con i suoi archi struggenti, ma c’è qualcosa di profondamente incompiuto, impostato, che impedisce la totale adesione emotiva di uno spettatore non nuovo né alla storia né allo stile. Le capriole di regia, come le infinite carrellate circolari, i ralenti poetizzanti e i giochi di luce nella notte, sono spesso più una compulsione che una necessità, altri cliché. Golden Globe al miglior film drammatico e 8 nomination all’Oscar, nell’anno della ribalta dei neri dopo le polemiche della passata edizione “troppo bianca”.
VOTO: 2,5/5