di Marco Chiappetta
TRAMA: 1918. Reduce della Prima Guerra Mondiale, il mite e cupo Tom Sherbourne (Michael Fassbender) si fa assumere come guardiano del faro di Janus, un remoto e disabitato isolotto australiano, a metà tra due oceani, facendosi raggiungere dalla bella Isabel (Alicia Vikander), che sposa e con cui tenta, invano e tragicamente, di avere figli. Quando il destino fa arrivare via mare una barca con il cadavere di un uomo e una neonata superstite, la coppia accoglie e cresce la piccola creatura come se fosse la loro vera figlia, finché anni dopo non si imbattono nella vedova Hannah Roennfeldt (Rachel Weisz), ancora devastata per l’annegamento in mare del marito e della figlioletta. Un enorme dubbio etico sconvolge i due, indecisi se tenere la piccola Lucy (Florence Clery) oppure confessare la verità, con tutti i traumi che ne conseguirebbero.
GIUDIZIO: Seppur tratto da una fonte terza e letteraria (il bestseller della scrittrice M. L. Stedman), il quarto film di Derek Cianfrance è un melodramma molto personale e fedele ai temi dei suoi due precedenti lavori, “Blue Valentine” (l’ascesa e il declino sentimentale di una coppia) e “Come un tuono” (un figlio “orfano” che sconta le scelte dei genitori e di un destino fatalista, la resa dei conti col passato che prima o poi torna, il conflitto tra colpa e perdono), con una resa estetica quasi lirica, complice la splendida fotografia di Adam Arkapaw, che immortala la suggestiva, imperiosa forza drammatica dell’oceano e la sua luce, in un desolato atollo di natura spiritualmente vicino ai mondi cinematografici di Terrence Malick e Ingmar Bergman. Sulla base di una struttura narrativa solida e avvincente, e con il supporto di tre ottimi attori, Cianfrance racconta in modo piuttosto classico la tragedia collettiva senza scampo di un microcosmo fatto di dolore, schiacciando però a tutta forza il pedale di una drammatizzazione eccessiva e lacrimogena, non sempre efficace: i primissimi piani, gli occhi degli attori sempre umidi e piangenti, la musica bella ma abusata di Alexandre Desplat a lungo andare forzano un’emozione e un pathos di per sé già insiti nella storia, col rischio (forse consapevole) di strafare. Resta, nei pregi come nei limiti, un bel film, scritto e confezionato con talento, forse troppo.
VOTO: 3/5