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“Prisoner 709”, le prigioni cupe di Caparezza

articolo-77-prisoner-709-le-prigioni-di-caparezzadi Marco Passero

“Il vivere libero è assai più bello del vivere in carcere; chi ne dubita? Eppure anche nelle miserie d’un carcere, quando ivi si pensa che Dio è presente, che le gioie del mondo sono fugaci, che il vero bene sta nella coscienza e non negli oggetti esteriori, puossi con piacere sentire la vita”. Così Silvio Pellico nel 1831, raccontando – incoraggiato dal suo confessore – gli anni più duri della sua vita in Le mie prigioni.
Senza scomodare alcun illustre riferimento letterario, il nuovo album di Michele Salvemini, in arte Caparezza, racconta un personale percorso interiore, travagliato e riflessivo proprio attraverso la metafora della cella e della privazione della libertà. Dopo un periodo di silenzio, a tre anni di distanza dal successo di Museica, Caparezza torna in scena con un disco magistrale, un album cupo, complesso e geniale, un’opera nel senso pieno del termine, in cui ogni elemento ha un significato ben preciso, dai titoli (e sottotitoli) di ogni canzone all’ordine della tracklist. In un simbolico percorso carcerario che va dal reato alla latitanza (libertà o prigionia?), l’autore associa ogni traccia a uno specifico momento della permanenza in una prigione descrivendo, con la grande abilità nella scrittura che da sempre lo caratterizza, la pena, il peso del reato, il ruolo che può avere uno psicologo, la scrittura cui può dedicarsi un detenuto come momento di ideale evasione, i ricordi cui affidarsi o, viceversa, da rimuovere con decisione, la tortura, la rivolta, la fuga. Gli attimi in cui il peso di una tale esistenza può apparire sminuito sono, forse, soltanto un colloquio e l’ora d’aria, rappresentati da due tracce che danno la chiave di lettura dell’intero disco: Una chiave è un pezzo in cui è possibile trovare la fatica e la frustrazione (“Le spalle curve per il peso delle aspettative”), la ricerca di un senso e di una via di fuga (“Sguardo basso, cerchi il motivo per un altro passo/ Ma dietro c’è l’uncino e davanti lo squalo bianco/ E ti fai solitario quando tutti fanno branco/ Ti senti libero ma intanto ti stai ancorando”), perché possiamo sentirci in un “labirinto senza pareti”, ma “non è vero che non c’è una chiave”; Ti fa stare bene potrebbe sembrare un pezzo più spensierato e radiofonico, e Caparezza lo sa e vi allude ironicamente nella parte finale della canzone, contiene una frase che spiega l’intera costruzione metaforica di Prisoner 709: “Sono l’evaso dal ruolo ingabbiato di artista engagé”, cioè un tentativo di fuga dalla prigionia dei ruoli che ci vengono imposti.
Prisoner 709 è un disco che bisogna saper ascoltare, dotandosi in anticipo di un pizzico di invadenza nei confronti dell’artista per quanto il suo lavoro è intimo. Quasi una seduta di autoanalisi, in cui a tratti si ascolta Michele e a tratti Caparezza (da qui il gioco del titolo: 709, 7 oppure 9, come lettere del nome Michele o di quello del suo alter ego sul palco).

Anche stavolta l’album è ricco di citazioni più o meno accessibili a un primo ascolto, con giochi di parole ricercatissimi e riferimenti personali. Così si passa da Oliver Sacks, neurologo e autore del libro Risvegli, che nel suo L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello indagò il disturbo chiamato prosopagnosia, l’incapacità di riconoscere il volto delle persone, titolo della prima traccia del disco, al padre della psicanalisi Carl Gustav Jung, fino al fisico Larsen che scoprì il principio dell’omonimo effetto sonoro, collegato a quell’acufene (un fastidioso fischio all’orecchio) di cui l’artista soffre da due anni, che metaforicamente lo imprigiona e che aveva seriamente messo in discussione la sua carriera.

“L’album si conclude con la pianificazione dell’evasione dalle prigioni in cui mi sono ingabbiato”, ha dichiarato Caparezza, “La fuga può avvenire solo con l’accettazione di sé, dei propri limiti e disagi”.